Elezioni catalane: Che succede il giorno dopo

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Si avvicina il 25 novembre, il D day. Quali che siano i risultati elettorali non assisteremo alla fine del dibattito sul nostro futuro né di quello sullo scollinamento della Catalogna. Al contrario, ci aspetta un lungo periodo in cui saranno ridefiniti i nostri rapporti economici e politici con la Spagna. Anche se oggi molti sperano in una transizione rapida, la verità  è che siamo all’inizio di un processo molto lungo.

Uno degli aspetti più sorprendenti di ciò che è accaduto in Catalogna negli ultimi mesi è la rapidità  con cui una parte consistente del paese è passata dal considerare l’Accordo economico come qualcosa di desiderabile (anche se difficile) a rifiutarlo radicalmente. Questo va bene per chi crede ai miracoli, ma la verità  è che in economia (e non solo) non esistono scorciatoie. I processi, se sono realmente definitori come lo è quello in atto, sono sempre lunghi e dolorosi, segnati da passi indietro e passi avanti. E il loro futuro è sempre incerto.

Insieme al D day si avvicina anche il day after, che in questo caso sarà  il giorno veramente cruciale. I sondaggi ipotizzano un quadro che sostanzialmente non è diverso da quello attuale, fatta eccezione per il possibile crollo del Psc: una maggioranza netta di deputati appartenenti a forze favorevoli al referendum (Cui, Erc e Icv), una segnata minoranza di contrari (Pp e Ciutadans) e in mezzo il Psc, favorevole ma soltanto se sarà  rispettato l’iter legale. Dunque la congiuntura è estremamente favorevole al referendum, che diventerà  il tema cruciale all’indomani delle elezioni. Da quel momento comincerà  la battaglia che segnerà  i prossimi anni.

Innanzitutto bisognerà  capire se lo stato spagnolo autorizzerà  la consultazione referendaria. Per Madrid sarà  una decisione difficile, perché qualunque sia il quesito accettare il referendum implicherebbe accettare il nucleo del dibattito che ci ha opposto alla Spagna negli ultimi anni. Mi riferisco al riconoscimento della sovranità  catalana come separata da quella spagnola e del diritto all’autodeterminazione del popolo catalano. Il nocciolo della questione sta tutto qui. Il day afte, infatti, non segnerà  l’avvio del processo di indipendenza, ma soltanto del percorso che alla fine dovrà  permettere alla cittadinanza catalana di potersi esprimere e dire ciò che vuole fare e quali devono essere le sue relazioni economiche e politiche con la Spagna.

Questo è l’elemento fondamentale della questione, ma nel fragore elettorale è passato in secondo piano. Oggi il dibattito pubblico è incentrato sul desiderio della Catalogna di essere indipendente, e in ambito economico sulla possibilità  di restare o meno nell’Ue o nell’eurozona. Magari fosse solo questo il problema! Se così fosse vorrebbe dire che la Spagna ha accettato di riformare radicalmente la sua costituzione, che ha ammesso che la Catalogna è un soggetto politico autonomo con diritto all’autodeterminazione e che ha acconsentito a lasciare che siano i catalani a decidere sul loro futuro. La verità  è che non siamo ancora a quel punto, e arrivarci sarà  molto difficile. Dobbiamo ricordarci che non siamo i primi a vivere un processo simile, che in passato si è rivelato molto complesso anche in paesi con una tradizione democratica ben più solida della nostra.

Altri secessionisti

L’esperienza canadese dell’ultimo referendum (1995) ha visto l’intervento della Corte costituzionale per determinare regole severissime sull’esercizio del diritto alla secessione, e ora è il parlamento federale che ha il compito di approvare la forma della domanda del referendum, sempre che si raggiunga una maggioranza “sufficiente”. In Europa c’è il precedente del Montenegro, per cui l’Ue ha chiesto il 55 per cento, ma in Canada è universalmente accettato che bisogna superare almeno il 66 per cento.

Nel Regno Unito il partito nazionalista scozzese si è presentato alle ultime elezioni promettendo di indire un referendum, e dopo aver ottenuto la maggioranza assoluta si prepara a rispettare l’impegno preso. Secondo i sondaggi in Scozia il sostegno all’indipendenza non supera il 40 per cento, ma il diritto del paese a decidere sul suo futuro e la necessità  di una consultazione sono stati ormai sanciti. Si tratta di due aspetti separati.

Qui abbiamo avuto la possibilità  di riformare la costituzione dalla porta di servizio con lo sventurato Estatut, ma i partiti spagnoli hanno chiuso quella porta con violenza. Ora una parte dell’intellighenzia madrilena si dice preoccupata dalla secessione catalana. Alla buon’ora! Il processo verso una consultazione sull’autodeterminazione della Catalogna è cominciato. Resta da capire quando terminerà  e in quali condizioni economiche.

I tempi di profonda crisi che ci tocca vivere non sono i più adatti al cambiamento radicale. Per questo il 26 novembre segnerà  l’avvio di un lungo processo che prima di ogni altra cosa dovrà  determinare la nostra capacità  di organizzare una consultazione. Questa è la chiave di volta, e dunque aspettiamoci un gran numero di minacce e pressioni. Ma non lasciamoci ingannare. Non stiamo parlando della nostra indipendenza o del nostro futuro in Europa. Il dibattito che sta per cominciare riguarda il nostro diritto di essere consultati.

Traduzione di Andrea Sparacino


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