DIALOGO MORALE

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Il dialogo a distanza tra Bobbio e Garin ci mostra le fasi diverse che Bobbio ha attraversato e che corrispondono alla storia del paese. Dalla filosofia civile a quella militante fino a quella moralizzatrice. Ed è a questa ultima fase che, utilizzando il carteggio con Garin (Della stessa leva. Lettere 1942-1999, uscito per Aragno), vogliamo dedicarci.
La fase di denuncia morale durò fino alla fine della sua vita e coprì il crollo della cosiddetta prima Repubblica e la nascita della seconda. Se non più della politica come progetto, di fronte al potere per il potere che non sa che fare della filosofia, di che cosa può occuparsi l’uomo di cultura se non delle degenerazioni, delle spregiudicatezze, della corruzione? Bobbio, prestigioso editorialista del giornale di Torino, divenne il punto di riferimento d’una ‘Italia che si sdegnava’ e ciò gli costò gli attacchi più violenti e volgari che avesse mai ricevuto, per il suo ‘moralismo’, ‘azionismo’, ‘piemontesismo’, ‘torinesismo’ ecc.: attacchi che non avevano nulla di culturale, ma molto di strumentale all’impunità  d’un sistema di potere intollerante nei confronti di chi non si adeguava. Furono attacchi che non meritano nemmeno d’essere ricordati, se non per denunciare l’evidente incommensurabilità  tra l’onesta denuncia della degenerazione, da un lato, e la disonesta violenza della reazione sopraffattrice, dall’altro. Perfino l’ex presidente della Repubblica Cossiga, nel 2004, diede prova di sé in questa miserabile campagna in cui rientra anche l’episodio della lettera di Bobbio a Mussolini del 1935, risuscitata dagli archivi nel 1992, episodio troppo noto per dover essere qui ricostruito.
Merita invece ricordarne le conseguenze dolorose a cui seguirono tante manifestazione d’affetto e solidarietà , innanzitutto quelle di Alessandro Galante Garrone e di Vittorio Foa. Questi sminuì l’episodio chiamando in causa lo stato di necessità  in cui si trovano gli uomini retti, sotto regimi illiberali, che giustifica il ‘nicodemismo’ di quegli anni. Bobbio rispose quasi ricusandole: «Ciò che mi ha turbato e ha creato in me uno stato di sofferenza, da cui non riesco a liberarmi, e da cui non riusciranno a liberarmi le parole di giustificazioni dette da altri, è la lettera stessa, il fatto di averla scritta. La sento, quella lettera, oggi, naturalmente come una colpa. Ma era una colpa anche allora, e non è possibile che non l’abbia avvertita come una colpa nel momento stesso in cui la scrivevo».
Anche Garin interviene nella polemica (La Repubblica, 16 giugno 1992), con argomenti simili a quelli di Foa, cogliendo l’aspetto spregevole dell’operazione di cui Bobbio era vittima: «iniziative di questo tipo mi fanno un’impressione penosa […] nel negare che in Italia ci sia stata, a quel tempo, una dittatura, con tutte le sue dure e strane leggi. Sono episodi che mirano a fare una grande confusione, permettendo, nella migliore delle ipotesi, di assolvere tutto e tutti. Con, in più, un cipiglio di severi moralisti». Insomma: Bobbio era stato messo sotto tiro per mostrare che il moralizzatore era lui a dover essere moralizzato. Queste e altre difese non valsero, però, come lenimento. Credo che ci fosse dell’altro. Si aveva un bel dire ch’erano cose d’altri tempi e d’altre fasi della vita; che la vita è lunga e che un cedimento d’una volta – e chi non ne ha avuti; chi può vantare un’esistenza di coerenza totale? – non getta l’ombra sull’esistenza intera e che i bilanci si fanno alla fine. La questione in cui Bobbio si sentiva moralmente intrappolato – credo di poter dire – non era principalmente di natura personale, una questione di incoerenza o di opportunismo. Era soprattutto una questione, per così dire, d’integrità  professionale. Per chi esercita una professione intellettuale, il diritto di pretendere d’essere presi sul serio, d’essere ascoltati in quel che si dice dipende dall’integrità  della propria esistenza; dal esibire come credenziale la coerenza tra le parole dette e gli atti compiuti, cioè dalla sincerità .
Delle ultime battaglie di Norberto Bobbio, Eugenio Garin fu spettatore solidale: «Da qualche tempo sono diventato tuo fedele lettore sulla Stampa, e più d’una volta mi hai aiutato a superare momenti particolarmente difficili a digerirsi» (2 gennaio 1991). Non risulta invece, dai documenti, ch’egli gli sia stato compagno ‘sul campo’. Del resto, Bobbio fu un combattente quasi solitario, pur se accompagnato da largo consenso. Forse, un ruolo lo giocava il carattere. Bobbio era un ‘iracondo’, un ‘collerico’, come ammetteva egli stesso (A me stesso, in De senectute, 1996), aggiungendo però un riconoscimento ai suoi sforzi per tenere a bada questa parte del carattere: un carattere che portava ai grandi sdegni, pur se non a invettive, indegne del filosofo qual è stato sempre, fino in fondo. Ma, certo, era portato all’intransigenza, pur se espressa con misura.
Il carattere di Garin doveva, forse, essere diverso, meno incline alla disputa. L’ideale rinascimentale dell’uomo di lettere, forse, lo rendeva distante dalle battaglie cruente. Ciò potrebbe spiegare la condivisione delle posizioni di Bobbio che, secondo ciò che i documenti mostrano, restò sul piano del conforto morale. Chi ha avuto  consuetudine con lui potrebbe forse confermare o smentire questa ipotesi.
Condivisione e amicizia sì, ma non al costo della sincerità . Così, quando alla fine della sua vita Bobbio prese posizione a favore dell’intervento militare nei Balcani, giustificando la ‘guerra giusta’ purché efficace con argomenti hegeliani – il diritto assoluto dello Stato volta a volta dominante nella storia universale – provocando la reazione stupita e addolorata di molti di coloro che si dichiaravano (e si dichiarano) suoi allievi come Danilo Zolo e Luigi Ferrajoli, Garin intervenne dichiarando lapidariamente: «Io sono kantiano» e, dopo aver sviluppato i suoi argomenti in totale disaccordo con quelli del suo amico, concludeva con una dichiarazione dal tono che posso immaginare conforme al carattere dell’uomo: «Non credo di poterlo seguire su questa strada».
Questa è l’ultima vicenda pubblica che vede Bobbio e Garin in dialogo (per questa volta, discorde) tra loro. Noi ci dobbiamo fermare qui. Ma non possiamo evitare di chiederci che cosa avrebbero potuto ancora dirci con riguardo ai tempi presenti, questi due umanisti della nostra epoca, l’uno impregnato di spirito del Rinascimento, l’altro difensore dei diritti, se non dei Lumi, almeno dei lumicini della ragione. Durante i suoi ultimi anni, Bobbio ha confessato più volte di sentirsi ormai fuori dal mondo, vecchio e quindi ai margini. Il tempo attuale è quello della velocità  e del cambiamento crescenti. I vecchi non sanno stare al passo e diventano sempre più pesi morti. Le pagine del De senectute (1996) sono una testimonianza sincera, e drammatica, del senso d’inadeguatezza ch’egli avvertiva. Il mondo cambia troppo rapidamente perché lo si possa, non dicasi assimilare, ma nemmeno conoscere, anche solo superficialmente. L’umanista ha come compito la comprensione d’insieme di ciò che è umano. Ma oggi il progresso delle conoscenze e delle loro applicazioni si fa a danno delle visioni d’insieme. Viviamo in un mondo parcellizzato. La divisione del sapere e delle applicazioni del sapere è, del resto, condizione per il progresso dell’uno e delle altre. Conosciamo il sempre più piccolo, ma non riusciamo ad avere un’idea del tutto. Rispetto al tutto, siamo letteralmente ‘spaesati’.
D’altra parte, la filosofia è in condizione di difficoltà , se non d’inferiorità  nel suo stesso campo tradizionale di studio. Le grandi domande sulla vita, sulla sua origine, sul
cammino nel tempo, e, forse, sul suo senso, vengono poste oggi sempre più dalla biologia, dalla chimica, dalla fisica e dall’astrofisica, dalla psichiatria, dalle neuroscienze; e da queste scienze si chiedono risposte che, un tempo, ci si aspettava dalla filosofia. Rispetto allo sviluppo delle altre scienze, la filosofia sembra diventare inadeguata, antiquata.
Infine, l’orizzonte pratico della riflessione filosofica di Bobbio e di Garin è stato essenzialmente nazionale. Ma, quella cosa che chiamiamo globalizzazione, riguardando le società  nel loro complesso, ha abbattuto i confini, rendendo obsoleta l’idea della specificità  o del ‘primato’ italiano, quale che ne sia l’idea. (…) Chi si raccapezza nella Babele? Chi saprebbe abbracciare ciò che accade in un concetto sintetico che consenta di capire? Come potremmo definire comprensivamente la nostra epoca? Non lo sappiamo. I tanti ‘post’ che tengono il campo del pensiero politico: post-modernità , post-capitalismo, post-secolarità , post-democrazia, per esempio, ci dicono solo che cosa non siamo più. Quando ci si azzarda in definizioni positive come ‘complessità ‘, ‘società  del rischio’, ‘società  liquida’ si cade in brillanti banalità  che certo avrebbero disgustato chi ha dedicato la propria esistenza a ricostruire i percorsi della formazione dei concetti portanti e importanti della nostra società  e a definirne i contenuti.
Forse da questo disgusto sarebbe nata l’energia per cercare, cercare ancora nuove categorie d’ordine adeguate al tempo che viviamo, ancora una volta con l’intento di sottoporre le forze selvatiche, di cui vediamo le opere, al controllo della ragione. Ma, questo è solo un rimpianto insensato col quale riempiamo il nostro senso di vuoto.


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