by Sergio Segio | 1 Novembre 2012 8:40
Nel libro La sacra causa di Darwin, Adrian Desmond e James Moore ci offrono un sontuoso affresco dell’Inghilterra vittoriana. Il loro è un Darwin come non lo si è mai visto, mosso dalle passioni, intransigente, quasi ossessionato da un fuoco sacro che doveva permeare tutta la sua vita: la lotta contro la schiavitù e contro tutte le catene imposte dalla disuguaglianza. Con un crescendo impressionante: dalla giovanile ostilità alla tratta dei neri, all’impegno per lo smantellamento delle istituzioni schiavistiche nelle due Americhe, fino alla percezione delle difficoltà dell’integrazione degli schiavi liberati in società ancora pervase da pregiudizi razzisti.
Di che cosa discuteva e che cosa leggeva il naturalista inglese, mentre formulava in segreto le sue idee evoluzionistiche? Per lo più dello scandalo del commercio — fosse legale o clandestino — degli africani strappati dai loro Paesi, della buona impressione avuta dagli amici di colore, delle infami crudeltà perpetrate dagli schiavisti, con la complicità di governi corrotti che le tolleravano da una parte all’altra dell’Atlantico, e soprattutto delle pretese giustificazioni «scientifiche» di tutta questa brutalità , formulate invocando l’origine distinta delle «razze» o addirittura delle «specie» umane.
Completavano il quadro le campagne di finanziamento delle associazioni antischiaviste, complici le agguerrite sorelle e cugine, le «donne della famiglia» tutte unite negli sforzi affinché la Gran Bretagna si emancipasse da qualsiasi contaminazione con gli sporchi traffici e con lo spaventoso sfruttamento, proclamando l’uguaglianza e la libertà per tutti gli esseri umani. E quando era in gioco la questione della «peculiare istituzione» (come la schiavitù era chiamata nel Sud degli Stati Uniti), Darwin non esitava a prendersela persino con i suoi maestri, come Charles Lyell, o con gli amici più fidati, come Joseph Hooker e Thomas Henry Huxley. Prudente e circospetto come sempre, doveva instancabilmente cercare appoggio tanto per la sua causa scientifica quanto per quella etico-politica, pur ricevendo in cambio frequenti delusioni.
Scrivendo a Alfred Russel Wallace nel 1857 a proposito del suo saggio L’origine delle specie confessava: «Chiedete se parlerò dell'”uomo”; credo che l’eviterò, essendo l’argomento tanto circondato di pregiudizi, benché riconosca pienamente che è il problema più alto e interessante per un naturalista». Ma nella stessa lettera aggiungeva che la sua opera era intesa a fornire «una vasta raccolta di dati di fatto con uno scopo ben definito»; in particolare, sottolineava che «è da tre mesi di fila che lavoro su un solo capitolo, quello dell’ibridismo». Desmond e Moore ricostruiscono l’ossessione di Darwin per gli incroci tra le varie razze di piccioni di allevamento e ci fanno capire come questa sperimentazione non fosse che una grande metafora per smantellare scientificamente il pregiudizio che gli incroci tra esseri umani di diverse razze (quelli chiamati sprezzantemente mulatti in analogia con il mulo, ibrido sterile di un asino e di una cavalla) producessero inevitabilmente prole sterile, come ci si aspetterebbe se si trattasse non di semplici razze ma di specie differenti, isolate l’una dall’altra da una barriera riproduttiva. Eppure, Darwin si sentiva tutt’altro che pronto a trattare direttamente di Homo sapiens!
Questo evoluzionista riluttante si deciderà a pubblicare sull’argomento «più alto e interessante per un naturalista» solo in tarda età : quasi costretto dalla veemenza dei dibattiti nel suo stesso Paese. Ma fin dalla gioventù aveva ben chiara in mente la fratellanza dell’intero genere umano. Per lungo tempo aveva avuto come alleati nell’antischiavismo proprio quei filantropi cristiani, devoti teologi naturali, che poi lo guarderanno con riprovazione per via del suo naturalismo senza eccezioni. Darwin finirà per sostituire l’origine in Adamo e Eva con la materialistica discendenza comune, come fondamento scientifico dell’abolizionismo, combattendo senza posa ogni teoria «pluralista» o «poligenista» che prevedesse creazioni separate o genealogie parallele delle «razze» umane.
Con il senno di poi possiamo dire che il suo fu veramente un colpo da maestro: mentre i suoi avversari invocavano origini totalmente distinte per le diverse componenti del «genere uomo», Darwin li spiazzava radicalmente andando persino a indicare l’antenato comune tra gli esseri umani e le grandi scimmie.
Pur mantenendo la sua autonomia esplicativa sul piano scientifico, poi corroborata da un secolo e mezzo di ricerche, la visione darwiniana venne notevolmente influenzata dal tema morale e politico dell’abolizionismo. Questo libro ci insegna così che quella grande «rivoluzione copernicana in biologia» non fu il frutto di una mente disinteressata, bensì di una personalità travagliata, immersa nelle battaglie civili del suo tempo. Fu il prodotto di chi aveva incontrato i volti dei popoli più diversi nella circumnavigazione del globo, dello spirito di un attivista instancabile, caustico nemico dei sudisti americani e della loro «scienza della razza», ma ancor più l’opera di un animo turbato dalle urla di dolore degli schiavi, dalle scene di genocidio viste in Tasmania, dalle «veneri ottentotte» impagliate e messe in mostra come trofei nei musei del «civile» Occidente. Non è sempre vero che lo scienziato lavori nel chiuso del suo laboratorio o del suo studio, incurante del mare turbinoso delle umane passioni. Come avrà modo di constatare il lettore delle pagine di Desmond e Moore, nell’impresa scientifica talvolta anche la collera è buona consigliera.
Negli ultimi capitoli di questo libro possiamo anche cogliere il peculiare e del tutto personale «darwinismo sociale» di Darwin, motivato dalla sua intenzione di applicare la selezione naturale al mondo sociale umano. Inasprito dai pregiudizi di genere e di classe tipici di un gentleman vittoriano, Darwin restava al contempo profondamente condizionato dal suo umanitarismo e dalla convinzione dell’unità evolutiva di tutte le «razze» umane («razze» della cui realtà oggettiva dubitava, poiché venivano classificate nei modi più diversi dagli «esperti»). Emergerà pubblicamente soltanto nel 1871 (in L’origine dell’uomo) quella che oggi ci appare una contraddizione latente tra le durezze malthusiane (che portano l’autore a teorizzare in alcuni passaggi lo scontro tra le razze umane come motore di progresso) e il rifiuto di qualsiasi discriminazione razziale sulla base di una visione dell’evoluzione umana centrata sulla parentela genealogica di tutti i viventi e sulla compassione come lievito della socialità .
Tale miscela teorica di indulgente filantropia e di individualistica competizione ha fatto sì che Darwin venisse ora strumentalizzato ora attaccato da fronti contrapposti che gli attribuivano idee edulcorate non sue, o viceversa gli imputavano le più ingiuriose colpe (fra tutte, quella di essere stato il padre dell’eugenetica e del razzismo novecenteschi).
L’opera preziosa di Desmond e Moore non condanna e non assolve, ma spazza via queste mistificazioni, che ancora sopravvivono in certa letteratura antidarwiniana. Dopo questa meticolosa ricostruzione storica, diventa davvero impossibile continuare ad associare ingannevolmente il nome di Darwin al razzismo scientifico.
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