Dalle piazze ai parlamenti la crisi accende l’odio per i diversi
Com’è ovvio ci sono ebrei tifosi della squadra di calcio Lazio. Magari anche perché, come ricordava uno di loro, Danco Singer, in una lettera a questo giornale, la Lazio indossa in campo gli stessi colori della bandiera israeliana. Quanto agli ultrà s laziali (e romanisti), non risulta che prendano abitualmente di mira persone o sedi della Comunità ebraica della capitale. Invece, guarda un po’, si sono coalizzati per aggredire i tifosi del Tottenham in trasferta; cioè dei cittadini inglesi per lo più non ebrei ma che a loro volta trovano suggestivo identificarsi nello stereotipo yids – giudei – allo scopo di rovesciarne la carica dispregiativa.
Per colmo di confusione nazionalistica, allo stadio Olimpico, dove si fronteggiavano una squadra italiana e una squadra inglese, altri sciagurati hanno pensato di insultare il Tottenham inneggiando al tedesco Hitler e esibendo lo striscione antisraeliano “Free Palestine”. Al che, quattro giorni dopo, in uno stadio di Londra, per tifare West Ham, una ventina di imitatori imbecilli ha pensato bene di mimare contro il Tottenham il sibilo delle camere a gas e di gridare “Viva Lazio”.
C’entra qualcosa tutto questo con il razzismo o stiamo facendo i conti con la follia centrifuga delle identità posticce, artificiali, ormai disgiunte dall’appartenenza etnica e religiosa? Prima di derubricare il tutto a mero teppismo giovanile, sarà bene ricordare che perfino l’ultimo conflitto che ha insanguinato il suolo europeo – la guerra dei Balcani – ha visto contrapporsi milizie reclutate all’interno di popolazioni non solo da secoli dedite ai matrimoni misti, ma per giunta appartenenti alla medesima etnia slava (e divise “solo” da fedi religiose sempre più tenui).
Il razzismo contemporaneo sempre più spesso prescinde dal vincolo etnico, anche se utilizza biecamente l’armamentario ideologico del razzismo novecentesco. Mi ha molto colpito la giovane età , 24 anni, di Daniele Scarpino, definito ideologo del sito antisemita “Stormfront” e arrestato per istigazione all’odio razziale. Ma colpisce anche che Scarpino e gli altri suoi compari (quasi tutti coetanei) facciano riferimento a una casa madre statunitense, non ai neonazisti tedeschi. Del resto anche il più recente fenomeno d’importazione xenofobo, “Alba Dorata”, pur esibendo simboli di evidente matrice hitleriana, giunge a noi dalla Grecia anziché dalla culla del nazismo.
Quest’ultimo fenomeno, specialmente pericoloso per la violenza praticata e per la capacità di contagio che rivela dentro a società avvelenate dalla pauperizzazione e dal rancore sociale, evidenzia con più chiarezza di altri la natura ambivalente del nuovo razzismo contemporaneo. L’ostilità allo straniero vi si manifesta additando i nemici del popolo come stranieri sia verso l’alto che verso il basso: in alto la plutocrazia affamatrice della finanza internazionale che viene tuttora comodo identificare nell’ebraismo cosmopolita; in basso gli immigrati che sottraggono risorse ai danni del popolo e lo “inquinano” pretendendo di mescolarsi ad esso.
Il ventennio di egemonia politica e culturale del forzaleghismo ha reso l’Italia – un paese che aveva già sperimentato la declinazione fascista dell’etno-nazionalismo – particolarmente esposta a questa retorica del popolo inteso come nazione proletaria contrapposta all’élite e allo straniero. Come dimenticare, in proposito, le dotte elucubrazioni di un Tremonti o di un Baget Bozzo, condite di richiami clericali? Più grossolano, come sempre, era il Berlusconi che in campagna elettorale si scatenava contro il pericolo che le nostre città divenissero “africane” o, addirittura, “zingaropoli”. Ma è ancora oggi la Lega Nord, titolare di un’“etnogenesi realizzata in laboratorio” (devo la definizione all’antropologo Pietro Scarduelli, dal volume L’immaginario leghista, a cura di Mario Barenghi e Matteo Bonazzi, Quodlibet Studio editore) la propagatrice più accanita del razzismo contemporaneo.
Solo una settimana fa Radio Padania Libera, che trasmette dalla sede leghista di via Bellerio, ha rivendicato la validità dei Protocolli dei savi di Sion.
Non importa se ne è stata comprovata la falsità , ha sostenuto tale Pierluigi Pellegrin dai suoi microfoni. Resta il fatto che i “semiti” detengono tuttora le leve di comando della finanza, dei mass media e del cinema, lasciando ai “non semiti” solo lo spazio della politica. Dunque i Protocolli vanno presi sul serio. C’è da stupirsi se poi tanti ragazzi da stadio insultano gli avversari al grido “ebrei”?
È giusto allarmarsi quando un esponente del terzo partito ungherese, Jobbik, chiede al suo governo di istituire un registro degli ebrei con doppia cittadinanza residenti sul territorio magiaro, come forma di “difesa nazionale”. Ma senza dimenticare che un’ideologia razzista analoga alligna in forze politiche che governano ancora tre grandi regioni italiane. Del resto un deputato europeo della Lega, Mario Borghezio, ha definito “patriota” il criminale di guerra serbo-bosniaco Mladic e ha manifestato pubblica condivisione per il manifesto dell’autore della strage di Utoya, il norvegese Breivik.
Ecco perché non possiamo minimizzare come “razzismo per finta” la caccia al diverso che sta trovando negli stadi la sua cassa di risonanza: perché la diffusione di un tale senso comune, ancorché non collimi con le tradizionali linee di demarcazione etnica o religiosa, è violenza verbale che sta già traducendosi in violenza fisica.
Non è ancora passato un anno da quando un “pacifico” intellettuale di destra, Gianluca Casseri, frequentatore di Casa Pound, ha sparato all’impazzata in un mercato di Firenze assassinando Samb Modou e Diop Mor colpevoli solo di avere la pelle scura, e riducendo all’invalidità il loro connazionale senegalese Moustapha Dieng, rimasto privo di ogni sostegno pubblico. Sul sito Facebook di Casseri si contarono 6205 “mi piace”. La caccia al diverso è già in pieno corso anche nel nostro paese. Verso l’alto e verso il basso, nel nome della purezza etnica inesistente di un popolo i cui connotati si allargano e restringono a piacimento, magari seguendo solo i colori di una squadra di calcio piena zeppa di giocatori con un altro passaporto.
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