by Sergio Segio | 21 Novembre 2012 10:12
Per troppo tempo movimento operaio e ambientalisti si sono trovati su fronti opposti. Vicende drammatiche, da Marghera a Cengio, hanno visto una guerra tra poveri. Poi la crisi ha messo in discussione molte cose e anche tra i lavoratori e i loro rappresentanti vecchie certezze si sono incrinate. La Fiom da alcuni anni ha iniziato a mostrare una certa sensibilità , anche grazie al suo segretario generale, verso tematiche un tempo considerate tabù. Forse una prima svolta ci fu quando nella primavera del 2004 a Sasso Marconi si tenne un seminario promosso da Carta Cantieri Sociali durante il quale sei Camere del Lavoro (Brescia, Bologna, Cosenza, Matera, Reggio Emilia, Torino) si confrontarono con attivisti del movimento altermondialista su temi riguardanti anche la questione ambientale. Nonostante questi progressi, non è sempre facile riunire militanti sindacali ed esponenti ecologisti. Ecco perché il convegno organizzato ad Ancona sabato scorso dal Circolo Laboratorio Sociale e dalla Fiom assume un valore che va oltre l’ambito locale. L’iniziativa si ripete a novembre da sette anni, per ricordare Araldo Gambini, prima partigiano, poi dirigente del partito e del sindacato metalmeccanico come operaio al Cantiere Navale e, dopo il ’68, militante del manifesto e del Pdup, infine fondatore del Laboratorio Sociale. Quest’anno il convegno era dedicato anche a Sandro Bianchi, scomparso alcuni mesi fa.
«Oltre la crisi, per una riconversione produttiva ed ecologica dei territori», questo il titolo del confronto. La devastazione sociale tocca anche la regione del fu «piccolo è bello», dal Cantiere Navale di Ancona alla Fabriano della famiglia Merloni, dalla zona industriale di Ascoli a quella del pesarese fino agli “scarpari” del maceratese. In questo quadro è necessario un cambio di paradigma. E le relazioni introduttive di Maurizio Landini e Paolo Cacciari non hanno deluso le aspettative. Il segretario generale della Fiom, dopo aver sottolineato come lavoro ed ambiente non debbano essere contrapposti, ha spiegato come sia fondamentale entrare in merito al cosa e come si produce: «Dobbiamo ridefinire il concetto di prodotto. Non si tratta di parlare dell’auto ma della mobilità . Cioè ridefinire il modello di trasporto che vogliamo promuovere». Ma non si può parlare di politiche industriali e di scelte strategiche se non si risolve una questione di fondo: la democrazia nei luoghi di lavoro. «Come si può discutere di strategie economiche quando i padroni mettono in discussione il ruolo centrale del sindacato, puntano all’emarginazione dei rappresentanti dei lavoratori, rifiutano completamente il confronto e ci mettono davanti al fatto compiuto?».
Ma la revisione radicale del cosiddetto modello di sviluppo rischia di essere ormai tardiva. Cacciari ha presentato delle tabelle dove molti indicatori mostrano come si sia imboccata una strada senza ritorno. La stessa green economy ha le sue ambiguità , perché per tanti è in realtà un green business. Non basta riverniciare di verde il nostro sistema produttivo, se non si mutano gli stili di vita e si mette in discussione il dogma della crescita. «Serve una green society, non solo una green economy». Cacciari ha citato l’esempio della Puglia, dove il gruppo di lavoro di Alberto Magnaghi ha progettato un piano paesaggistico incentrato sul coinvolgimento delle comunità territoriali. Così come in diversi luoghi in Europa si stanno sperimentando delle monete locali. Non un’alternativa all’euro, ma un processo di rilocalizzazione dove la relazione economica viene reinserita nel contesto sociale di prossimità . La discussione è proseguita con una tavola rotonda tra l’amministratore delegato della Energy Resources, Enrico Cappanera, e Gianluca Fioretti, sindaco di Monsano, piccolo comune dell’anconetano, noto per le sue politiche ecologiche (fa parte della Rete dei comuni virtuosi). Cappanera ha sorpreso favorevolmente i presenti denunciando come «potere politico, banche e multinazionali» stiano cercando di massacrare in Italia la crescita dell’economia verde, con la drastica riduzione degli incentivi. Ha raccontato l’esperienza della sua impresa, nata cinque anni fa con un capitale di diecimila euro, passata in pochi anni ad un fatturato di trecento milioni e 180 dipendenti, tutti giovani. Poi nell’ultimo anno, a causa delle scelte del governo nazionale e regionale, ossequiose verso le lobby petrolifere e del gas, si è visto costretto a ricorrere alla cassa integrazione mandando a casa 120 persone. Una storia emblematica nell’Italia di Monti e nell’Europa della Troika.
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