Da una grotta alla Città  proibita l’irresistibile ascesa di Xi il nuovo imperatore della Cina

by Sergio Segio | 10 Novembre 2012 8:33

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PECHINO — Il nuovo imperatore della Cina sorride a mandibola sciolta e ha una moglie bella e più famosa di lui. Basterebbe questo per rassicurare l’Occidente e impensierire l’Oriente. Mai, imbalsamato Mao, i cinesi hanno avuto un leader privo di paralisi facciale e che ha avuto la sfacciataggine di corteggiare una come Peng Liyuan, la star della tivù con i gradi di generale. Per i prossimi dieci anni le cancellerie straniere sognano così un leader di Pechino fotogenico e, per la prima volta, dotato di first lady. Altro che Lunga Marcia, nel tempo della socialciviltà . I cinesi invece no: conoscono l’etichetta della Città  Proibita e sanno bene che farsi amare è il più fatale dei difetti. L’affabilità  apparente di Xi Jinping, 59 anni, “principe rosso” proclamato segretario generale del partito comunista cinese mercoledì prossimo, presidente della seconda economia del mondo a partire da marzo 2013, è però la ragione che autorizza sia l’Occidente che l’Oriente ad avere ragione.
È sufficiente dargli un’occhiata per sentire che questo sosia del Grande Timoniere, solo cresciuto oltre un metro e ottanta e con il passo bonario di un orso non del tutto sveglio, rassicura e impensierisce nello stesso tempo. Ha preso possesso del potere partendo dalle retrovie, quando tutti lo davano per bruciato, maneggiando un’arma difficile: il proprio mistero, la capacità  di tacere per incoraggiare tutti, così da rendersi infine non troppo sgradito ad alcuna delle fazioni che si contendono l’eredità  del solo comunismo di mercato sopravvissuto al Novecento.
La migliore qualità  dell’uomo che si appresta a determinare il destino della globalizzazione in crisi, fino a consumare il sorpasso sugli Stati Uniti entro la fine del suo mandato, è incarnare realmente il prodotto di cui oggi ha bisogno un partito-Stato con 82 milioni di iscritti e 1,4 miliardi di abitanti: un enigma aperto, che può rapidamente portare la Cina verso qualsiasi approdo. Nella Grande Sala del Popolo, dove si sta celebrando l’estenuante liturgia del passaggio del potere di una partitocrazia garantita dalle forze armate, gli oltre duemila delegati del Congresso non fanno nulla per nasconderlo: solo il compagno Xi è riuscito a uscire in tempo dalla mischia che travolge riformisti e conservatori, discepoli della Lega della Gioventà  comunista e “principi rossi”, clan di Shanghai e circoli di Pechino, funzionari travolti dalla corruzione e aspiranti leader traditi dall’ambizione. Se è qui, è per questo. «Xi Jinping non è nessuno — dice il politologo Zhang Xiaojin — o almeno nessuno di identificabile. La Cina ha scelto un capo che non può essere attaccato».
Lo sa bene anche l’intelligence del Pentagono, che nel febbraio scorso lo ha studiato per una settimana quando fece visita alla Casa Bianca, ai porcili di Muscatine
che aveva visionato da funzionario e alla figlia unica iscritta ad Harvard: la sua imperscrutabilità  nasconde idee precise, una disciplina assoluta e quel genere speciale di volontà  che non fallisce l’obbiettivo. Questione di adattabilità  mutata in Dna, perché Xi Jinping è la sintesi del passaggio della Cina dal maoismo a Deng Xiaoping e da Jiang Zemin a Hu Jintao.
Il padre, Xi Zhongxun, fu eroe della Rivoluzione, vittima delle Guardie Rosse e riabilitato vice premier. Lui è nato e cresciuto invece tra i velluti di Zhongnanhai, il fortino dell’élite, ma da studente è stato spedito nelle campagne dello Shaanxi, a «imparare la sapienza dalle masse». Sette anni in una grotta di Liangjiahe: «Ho ingoiato bocconi amari — si è lasciato sfuggire — ho conosciuto le pulci, lo stremo delle forze e una solitudine totale». È qui che essere un “principe rosso” ha fatto la differenza. Hanno prevalso le conoscenze, la laurea e gli agganci alla Tsinghua, quello che un dispaccio di WikiLeaks ha descritto come «il suo occhio ossessivamente puntato sul premio finale ». L’ascesa del funzionario che non parlava mai è durata 17 anni, trascorsi scientificamente nella capitale e in villaggi sperduti, nelle più ricche regioni costiere e tra le rivolte del Tibet, al servizio di Jiang Zemin a Shanghai e agli ordini di Hu Jintao durante le Olimpiadi di Pechino.
Gli americani si limitano a dire che «è uno che sa come ottenere i risultati» e dal 2007 riconoscono che non ha commesso errori. Tre sole ombre: una sfuriata anti-occidentale in Messico («cosa vuole da noi tutta questa gente con la pancia piena»), lo scoop di Bloomberg su un patrimonio da centinaia di milioni di dollari e l’inquietante sparizione ai primi di settembre, quando ignorò Hillary Clinton causa «mal di schiena ». Per il resto, come ha scritto il Quotidiano del Popolo, l’uomo che in queste ore dirige il congresso chiamato a incoronarlo «è un riformatore moderato e un conservatore progressista».
Mani libere e avversari deboli, con l’eccezione del prossimo premier Li Keqiang, cui ha sottratto il trono al fotofinish, esibisce uno stile che induce il popolo a non odiarlo: mangia nelle mense governative, veste come un vecchio postino, non ha assistito alla nascita della figlia causa tifone nel Fujian, è stonato e non è mai riuscito a farsi dare la patente. Tra quattro giorni, cinturato dagli altri promossi nel Comitato permanente e nella Commissione militare, stretto tra le emergenze della Cina e del resto del pianeta, questo sconosciuto signor Xi sarà  comunque l’azionista di maggioranza dei nostri problemi comuni. Finalmente dovrà  spiegare ai cinesi e a non pochi altri cosa succederà  alla galassia-Cina fino al 2022. Avrà  sei anni di tempo più di Barack Obama: per questo il mondo non vede l’ora di conoscerlo, impensierito dal suo sorriso e rassicurato dal suo silenzio.

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