Curdi, il nuovo fronte di guerra

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Potrebbe diventare, o forse è già  il nuovo fronte della guerra civile in Siria. Allo scontro tra esercito governativo e ribelli, in prevalenza sunniti, rischia di aggiungersi il faccia a faccia armato tra i ribelli e i curdi, se non addirittura tra curdi e curdi. I morti e feriti di una settimana fa nel quartiere di Ashrafieh ad Aleppo hanno mostrato, forse, solo il primo sanguinoso capitolo del nuovo libro della crisi siriana. E i mezzi d’informazione locali continuano a scriverne.
La ricostruzione dell’accaduto rimane parziale. I miliziani del battaglione ribelle «Salahedin» (del quale fanno parte anche curdi siriani nemici giurati di Bashar Assad e jihadisti dell’unità  al Nusra), approfittando del cessate il fuoco (durato solo poche ore) negoziato dall’inviato dell’Onu Lakhdar Brahimi, avrebbero cercato di prendere il controllo di nuove posizioni in modo da circondare due basi dei servizi di sicurezza. Un’avanzata che però ha infranto un accordo raggiunto con il Partito dell’unione democratica (Pyd, legato al Partito dei lavoratori del Kurdistan, Pkk, che combatte in Turchia) che prevede che l’Esercito libero siriano, la milizia ribelle, rimanga fuori dalle aree curde. Le conseguenze sono state pesanti: 30 morti e decine di feriti tra i combattenti dell’una e dell’altra parte, seguiti, ha riferito il quotidiano The Daily Star, da almeno 200 sequestri di persona compiuti dai ribelli a danno di curdi rilasciati solo dopo ore di negoziati molto tesi (un civile curdo sarebbe stato torturato a morte dai suoi carcerieri).
Gli scontri di Aleppo, che hanno evidenziato anche la rivalità  esistente tra le stesse fazioni curde (dentro e fuori la Siria), difficilmente rimarranno un fatto isolato. Una diffidenza sempre più simile al rancore segna i rapporti tra gran parte dell’Esercito sicialo libero (Esl) e il Pyd. Mentre il filo occidentale Consiglio nazionale curdo (Cnc) accusa il Pyd (che rappresenta la maggioranza dei curdi siriani) di essersi alleato con il regime di Bashar Assad. «E’ un’accusa falsa», protesta Zuhat Kobani, un portavoce del Pyd: «Il regime per noi è una linea rossa. Nelle carceri siriane c’erano 1,055 detenuti curdi prima dell’inizio della rivolta contro Assad. Noi però vogliamo una rivoluzione pacifica e rifiutiamo combattimenti nei nostri centri abitati». 
Avvalora la spiegazione di Kobani anche M.I., una esperta della questione curda in Siria che, per ragioni di sicurezza, ha chiesto di rimanere anonima. «I curdi non sono a favore di Assad – afferma – perché sono stati sempre discriminati dal regime. Trecentomila erano senza cittadinanza e nelle città  curde ci sono state manifestazioni antiregime sin dall’inizio delle proteste». In questi mesi però sono emersi aspetti complessi della rivolta. «I curdi – aggiunge M.I. – non si fidano più dell’opposizione siriana dominata dai Fratelli Musulmani e sponsorizzata dalla Turchia che, è noto, non offre alcuna garanzia i diritti dei curdi». I curdi, conclude l’esperta, «hanno colto l’occasione per realizzare di fatto forme di autonomia e vogliono evitare che ci siano combattimenti e violenze nelle loro aree. Per questa ragione molti abitanti di Aleppo hanno trovano rifugio proprio nei quartieri curdi e nella regione di Hassakeh, dove sono ospitati oltre 200mila sfollati». 
Per il curdo iracheno Abdul-Baqi Yousef, membro del partito Yakiti e del Cnc, invece si tratterebbe di una «cospirazione a danno della rivoluzione». «Consegnando al Pyd il controllo delle aree curde, il regime è riuscito a provocare divisioni e scontri nello schieramento anti-Assad», dice Yousef in riferimento al ritiro dell’esercito regolare da Qamishli, Amouda, Dirbasiyeh, al-Malkia e altre zone della Siria popolate dai curdi. 
I miliziani dell’Esl vanno meno per il sottile e accusano i dirigenti del Pyd di «essere scagnozzi del regime, armati e pagati per tenere a bada i rivoluzionari». Lunedì scorso i ribelli hanno attaccato, sotto il comando di Abu Ibrahim, i villaggi curdi della provincia di Qastal Jendo, a nord di Aleppo, anche allo scopo di aprire una delle vie del traffico di armi – soggetta al controllo dei posti di blocco curdi. Il Pkk, ben armato e che dallo scorso luglio è all’offensiva in Turchia, ha reagito minacciando di «difendere i curdi siriani da qualsiasi minaccia araba». 
Sullo sfondo si gioca la partita tra il regime siriano e la Turchia, che appoggia apertamente i ribelli anti-regime. Nel nord del paese Bashar Assad ha lasciato spazio ai curdi – 40% della popolazione nel nord-est della Siria – per poter concentrare gli sforzi militari su Aleppo e Damasco e per mandare un segnale di avvertimento d Ankara. 
Dopo decenni di discriminazioni sotto i rispettivi regimi, i curdi si rendono conto di essere diventati un fattore importante negli equilibri strategici regionali, sia che il regime di Assad sopravviva sia che i ribelli arrivino al potere.
In ogni caso i curdi, in particolare quelli siriani, non accetteranno di rimanere oppressi.


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Su Gaza non piovono più bombe, su Israele non cadono più razzi. Per il momento. Poi, se tutto resta come adesso (o come gli ultimi 10 anni), ricomincerà  la spirale di violenza. In attesa di un conflitto magari su larga scala. E la speranza muore. Si attendono nuovi eventi. Che non sono certamente l’annunciato ritiro dalla vita politica di Ehud Barak, oppure la riesumazione dei resti di Arafat per capire se è stato avvelenato con il polonio e neppure l’ennesime riunioni delle varie agenzie internazionali da decenni al capezzale dei due contendenti.

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