Così Vittorio restò umano

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Il suo «battesimo» come scudo umano, nel primo viaggio in Palestina, fu proprio con i piccoli. Fuori dalle scuole ad attenderli non c’erano i genitori ma i carri armati e Vittorio, con altri internazionali, a frapporsi fra di loro. Quei soldati aspettavano solo il lancio di una pietra per puntargli i cannoni addosso. Quando ci sentivamo per telefono, da Gaza, udivo spesso un gran frastuono di sottofondo. Erano i bambini. «Se tu sapessi, mamma, quanti bambini ci sono a Gaza! Sono qui sotto che mi stanno chiamando perché mi vedono affacciato alla finestra e vogliono che vada da loro.»
Era un’affinità  spirituale, intima, quasi mistica, quella che Vittorio aveva con i ragazzini. Era la gioia nel riconoscersi simili, l’innocenza ritrovata. Ancora adesso, quando mi invitano nelle scuole per parlare di lui, mi accorgo di come i bambini mi seguano con occhi incantati.
«L’estate scorsa a Nablus mi sono reso conto, puntando gli occhi in aria, di quale potenza di suggestione abbia la fantasia dei bambini. Chiusa da mesi e mesi, le strade semideserte, le piazze ridotte a un cumulo di macerie, in aria si scorgeva la sfida dei bambini. Guardata verso l’alto, Nablus appariva come una città  in festa, centinaia e centinaia di aquiloni ne coloravano il cielo in vortici di volo, come a dichiarare al mondo un segno di libertà  a cui tutti questi uomini in miniatura agognano. I soldati sparano spesso contro gli aquiloni, sono il primo bersaglio dopo i lampioni per strada di notte. Ma ad ogni aquilone distrutto, il giorno dopo se ne presentano di nuovi più belli e colorati. “Possono rinchiuderci, toglierci il cibo, l’acqua e anche la luce, ma non potranno mai privarci dell’aria, del cielo e della nostra voglia di sognare”, mi mormora un bambino impegnato a sciogliere la matassa dei suoi sogni incastrati su un’insegna arrugginita». (Vittorio, Nablus, estate 2003)
Quei bambini, il bersaglio più comodo. «Sfilano timorosi con gli occhi rivolti in alto, arresi ad un cielo che piove su di loro terrore e morte; timorosi della terra che continua a tremare sotto ogni passo, che crea crateri dove prima c’erano le case, le scuole, le università , i mercati, gli ospedali, seppellendo per sempre le loro vite». (Vittorio, Gaza City, 7 gennaio 2009).
***
Non si uccidono così neanche i gattini. «Recandomi verso l’ospedale Al Quds dove sarò di servizio sulle ambulanze tutta la notte, correndo su uno dei pochi taxi temerari che zigzagando ancora sfidano il tiro a segno delle bombe, ho visto fermi a un angolo della strada un gruppo di ragazzini sporchi, coi vestiti rattoppati, tali e quali i nostri sciuscià  del dopoguerra italiano, che con delle fionde lanciavano pietre verso il cielo, in direzione di un nemico lontanissimo e inavvicinabile che si fa gioco delle loro vite. La metafora impazzita che fotografa l’assurdità  di questi tempi e di questi luoghi. Restiamo umani.» (Vittorio, Gaza City, 8 gennaio 2009).
Vittorio si era innamorato di Handala, questo bambino palestinese creato dalla matita di Naji Ali che gira le spalle al mondo perché il mondo volta le spalle a lui. Se l’era fatto tatuare su un braccio e raccontava dell’entusiasmo che aveva suscitato fra i palestinesi del campo profughi di Beddawi, in Libano. Tutti conoscevano la storia di Handala. Che un ragazzo italiano lo portasse con sé, forse significava che Handala aveva trovato un amico e aveva finalmente deciso di girarsi. Dopo la morte di Vittorio il disegnatore brasiliano Carlos Latuff li unì in un disegno. Un’immagine che è diventata universale. Vittorio, con la sua pipa e il berretto da marinaio, si gira sorridendo verso Handala tenendolo per mano; il bambino, ancora di spalle, alza però il braccio a indicare la «V». «V» di vittoria e «V» di Vittorio?
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Da Nablus i suoi racconti iniziarono a farsi più duri, taglienti come coltelli, cominciarono le descrizioni delle case occupate, dei check point, delle corse in ospedale. I check point a volte potevano rappresentare la differenza che passa tra la vita e la morte. File interminabili di persone, molti vecchi, ammalati, donne incinte, che attendevano di poter tornare a casa o recarsi al lavoro o in ospedale. A volte chiudevano all’improvviso e si doveva aspettare la notte intera prima che riaprissero. È facile intuire la rabbia e l’angoscia provate da Vittorio di fronte a questi evidenti soprusi.
Portava spesso una maglietta dei Nirvana, una specie di portafortuna, e raccontava che quei «bambocci», come lui definiva i soldati israeliani ai check point, innamorati del rock americano, ammiravano trasognati la maglietta, e aprivano i cancelli più in fretta.
«Check-point. Mi sono mosso un paio di giorni fa verso Nablus. Giunto innanzi alle porte della città  ho veduto una fila di 200 persone sotto un sole cocente che soffrivano e soffocavano per il caldo impietoso e nel tentativo di tornare a casa. Io ultimo della fila, mi preoccupavo del rischio disidratazione che le ore di attesa sotto trentacinque gradi mi avrebbero potuto ben presto riguardare, quando qualcuno mi ha messo a braccetto il più anziano e malato di tutti: “Tu puoi passare, tu puoi passare, tu puoi far passare quest’uomo”. Allora ho baciato la mano tremante di questo vecchio arabo, e sussurrandogli le poche parole che conosco della sua lingua tanto per tranquillizzal ci siamo incamminati verso il filo spinato e il cannone del carro armato sembrava riprenderci come in un film. Ho percorso 150 metri fra i bambini piangenti, carrozzelle con infanti e carretti cosparsi di alimenti che si sfaldavano al sole e verdura e frutta che veniva depredata da sciami di insetti. Donne disperate pregavano sotto vesti soffocanti. Uomini tristi e accovacciati in attesa del loro turno. Di fronte al gabbiotto dove il mio passaporto veniva sfogliato con dovizia di domande, ho recitato per benino la parte del turista capitato lì per caso (per caso, a Nablus sotto assedio?) e mi sono stupito ancora una volta della poca arguzia di questi ragazzini vestiti da soldati. Sono scivolato via senza problemi con il baba sottobraccio che mormorava incessantemente parole di benedizione in mio favore». (…)
«A volte il check-point chiude improvvisamente, allora intere famiglie sono costrette a dormire per strada in attesa che pigri ufficiali di servizio decidano di riaprire le imposte la mattina seguente. Un dottore di Ramallah mi ha mostrato i dati che segnano le morti durante le lunghe attese ai posti di controllo, un centinaio di persone in cura di dialisi decedute nei primi due anni di Intifada. E quante madri con un bimbo in grembo, in attesa di un cesareo, sono morte al di là  del filo spinato?» (Vittorio, Nablus, estate 2003).
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Sabato 27 dicembre Vittorio mi chiamò verso le 11 del mattino e con sgomento mi annunciò che Gaza era sotto attacco. I bombardamenti erano iniziati. La domenica ci fu la prima strage di bambini. Durante la Messa ascoltai le parole dell’Antico Testamento e mi parvero scritte per le mamme di Gaza. Le pubblicai su Guerrilla. «28 dicembre 2008 – Santa messa nel IV giorno dell’Ottava di Natale – Santi innocenti martiri – Dal Vangelo secondo Matteo: «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande. Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» – Geremia, 31, 15.
Io sono Rachele e migliaia di madri con me. Quando finirà  questo olocausto? «Caro Vittorio, in questa ultima mezzanotte dell’anno siamo qui, io e papà , ad ascoltare i botti che diventano i rumori della guerra. Vediamo le facce e gli auguri ipocriti in tv e pensiamo a te, a voi. Nelle nostre calde case, al sicuro, solo minimamente riusciamo a essere voi e a provare quel che provate. Ci aiutano le tue parole. Hai il dono di saper trasformare in parole – e che parole! – i pensieri, i convincimenti e i sentimenti. È anche questa una missione e la stai compiendo molto bene». (…)
«Non ti faccio auguri da formuletta, mi auguro e ti auguro che tu tenga in buon conto la tua vita, che è preziosa, per le future battaglie che ti aspettano nell’anno che verrà . Ti pensiamo sempre e ti abbracciamo. Mamma e papà ». (da Egidia a Vittorio, 31 dicembre 2008).
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La motivazione e l’obiettivo dell’attacco addotta dal governo israeliano era la distruzione di Hamas. Ma non solo il gruppo non venne distrutto, riuscì al contrario a consolidare il proprio potere, ristabilendo anche, in quelle circostanze, rapporti migliori con Al Fatah. Chi pagò il prezzo dei bombardamenti furono gli abitanti di Gaza: Piombo fuso si trasformò in una carneficina di civili, soprattutto bambini.
«Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri, state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di Hamas o Fatah esposte sui davanzali. Non esistono operazioni militari chirurgiche: quando si mette a bombardare l’aviazione e la marina, le uniche operazioni chirurgiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullati alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbero salvabili. Non c’è tempo. Bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito successivo in attesa di una trasfusione». (Vittorio, Gaza City, 31 dicembre 2008).
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La fine dei bombardamenti su Gaza non riportò la normalità  in quella terra straziata. Ci fu la conta dei morti, oltre 1400, in ampia maggioranza civili. Vittorio partecipò a numerosi funerali. Ogni cosa sembrava sospesa, non si poteva ricostruire perché le macerie invadevano le strade, si viveva nelle tende, c’era poco da mangiare. Si rimpastava il vecchio pane ammuffito, o si utilizzava la farina che veniva data normalmente agli animali. Israele non lasciava passare nulla attraverso i valichi, perché considerava pericolosa ogni merce, a iniziare dal cemento, dal ferro, dal vetro, ma nulla scuoteva il mondo dall’apatia verso il popolo palestinese martoriato.
Dopo le bombe, le distruzioni, le morti, Vittorio non fu più lo stesso. Riprese a uscire con i pescatori e con i contadini, ma ci confidò gli incubi a occhi aperti che popolavano le sue giornate e le sue notti. Non passava giorno senza che ricevesse richieste di interviste da radio, giornali, televisioni. Era sempre disponibile; sperava, attraverso i media, di poter comunicare a sempre più persone ciò che stava vivendo il popolo di Gaza. Gli interessava molto poco la celebrità ; si stupiva se in una manifestazione compariva il suo motto: «Restiamo umani».
«Cara famiglia, spero che ora converrete con me che la decisione di voler tornare quaggiù, e subito, era la decisione più giusta. Immaginatevi se non ci fosse stato nessuno a raccontarlo questo massacro…». (…)
«Soprattutto, adesso che ho modo di leggiucchiare le centinaia di mail che ho ricevuto, pare che la forza delle mie parole abbia veramente scosso le coscienze, riscosso ciò che di umano in molti si era assopito. Sono stati giorni d’inferno, e continuano a essere durissimi. Potevamo morire, siamo sopravvissuti. L’inferno non è certo finito. Io in particolare, minacciato di morte da più parti, se sono rimasto vivo è perché non sono stato lasciato solo, preda di questo moloch fascista assetato di sangue. Non lasciato solo da migliaia di persone, ma soprattutto dalla mia famiglia, le mie radici affettive. Non so se mi sto guadagnando un posto in paradiso, certo è che lenire l’inferno di questi innocenti è una vita che vale la pena di essere vissuta… Restiamo umani». (Vittorio, Gaza City, 27 febbraio 2009).

 

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DA OGGI IN LIBRERIA

La Palestina può essere fuori dall’uscio di casa

«Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che, come il seme che nella terra marcisce e muore, darà  frutti rigogliosi». È quanto scrive Egidia Beretta Arrigoni sulla copertina del volume «Il viaggio di Vittorio» (Dalai Editore, 200 pagine, euro 15,00), da oggi nelle librerie. Un’opera che racconta il sogno, l’utopia di Vik attraverso l’intenso flusso di corrispondenza tra madre e figlio. «Io e Vittorio eravamo molto uniti – dice Egidia – come idee, obiettivi e ideali, sono molto orgogliosa di lui, è sempre stato così». Vittorio il volontario, l’attivista, il pacifista, la voce libera, il giornalista e testimone che attraverso i suoi reportage per «il manifesto» raccontava Gaza dall’interno, facendo conoscere giorno dopo giorno una situazione mai così ben rappresentata, senza slogan, ma con la ferma convinzione che «conoscere è il primo passo per la soluzione». Vittorio Arrigoni, barbaramente assassinato a Gaza nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2011, è stato pianto da chi ha capito – grazie a lui – che «la Palestina può anche essere fuori dall’uscio di casa».


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