“Così abbiamo perso la casa” spagnoli sempre più disperati e il suicidio diventa epidemia

by Sergio Segio | 9 Novembre 2012 9:04

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MADRID. LUNGI dal costituire una forma di educazione per gli adulti, l’informazione quotidiana sulla crisi ci mortifica come scolaretti presi in fallo. Due le reazioni possibili: provare a tenere il passo, inghiottendo pagine e pagine di quella lingua straniera, dicendosi che alla fine qualcosa resterà , come gli scolari messi a forza in una scuola che non era fatta per loro; o rinunciare, sprofondando nel rancore e nella frustrazione. Ce n’è un’altra, forse, che è di guardarsi in giro. Ho trascorso in Spagna (com’è bella, eh?, la Spagna! E la Grecia!) un periodo lungo e istruttivo, dominato da due questioni: gli sfratti, e il vento della secessione catalana. Di quest’ultima, incombenza cruciale per l’Europa, scrisse per Repubblica Omero Ciai. Gli sfratti, direte, sono un evento diffuso e drammatico anche in Italia. Qui c’è una peculiarità , legata alla famosa bolla immobiliare, che a essere buttati in strada, con le buone o le cattive (le cattive!), oltre agli inquilini morosi, sono i proprietari di case ipotecate che la crisi ha privato del lavoro e impoverito, sicché non ce la fanno più a pagare le rate dei loro mutui.
LE FAMIGLIE cui è già  avvenuto sono oltre 350 mila, quelle su cui incombe lo stesso destino altre centinaia di migliaia. La legislazione spagnola, come ormai denunciano gli stessi magistrati tenuti ad applicarla con pena e vergogna, è letteralmente sadica nel fare gli interessi delle banche e calpestare diritti e umanità  dei debitori. Il meccanismo è complicato ma la sostanza è questa: i debitori morosi che hanno dato in garanzia l’ipoteca sulla propria casa — istigati, ricordate, dalla speculazione edilizia e bancaria — o, tragedia nella tragedia, case dei propri genitori o nonni, vengono espulsi alla svelta con un ampio e manesco dispiego della forza pubblica. La casa passa alla banca, e la banca o chi per lei la ricompra all’asta, a un prezzo fortemente inferiore; ma il sequestro della casa, e la speculazione sul prezzo che consente, non bastano a estinguere il debito: il proprietario espropriato deve pagare la differenza con la valutazione iniziale del valore della casa, più gli interessi che continuano a correre.
Una rapina a vita, difficile da credere. E però a lungo questi sgomberi — desahucios — si sono perpetrati furiosamente nella vana resistenza delle famiglie e dei vicini, o nel silenzio di altre famiglie che si vergognavano della propria disgrazia, finché… Finché un movimento spontaneo, civico, di solidarietà  con gli sgomberati è via via cresciuto, e finché alcuni gesti di quelli che si definiscono disperati hanno strappato la cortina. Mentre ero qui, a distanza di due giorni due persone si sono preparate all’appuntamento con le truppe degli sgomberanti: uno viveva solo, si è fatto trovare impiccato, alle dieci di mattina; l’altro ha dato un bacio al bambino e si è buttato giù dalla finestra. (Permettetemi un’osservazione sui suicidi e la crisi, perché si è obiettato che alla fine nelle statistiche sui suicidi i conti tornano, senza variazioni sostanziali fra stagioni grasse e magre. Dubito delle statistiche su un tema così impervio, ma le persone che si ammazzano nella propria casa nel momento in cui ne vengono sradicate non lasciano dubbi sulla causa del proprio gesto. E bisogna, perché i conti tornino, che altri due candidati al suicidio per misteriose ragioni loro cambino idea). La questione è finalmente esplosa nei telegiornali e nei giornali,
El Paìs e, a Barcellona, El Perià³dico, ne fanno una campagna. Questione infame, e per giunta la grandissima parte degli spagnoli, di sinistra e anche di destra, indipendentisti o federalisti o unionisti, non sono contenti della differenza fra il rescate delle banche a tasso zero e i desahucios degli impoveriti ad alzo zero.
Non sono affatto contenti. Ma questa era una questione di umanità , veniamo all’economia e finanza. Abbiamo imparato che i poveri vanno in rovina mentre gli Stati o le banche fanno default.
Non è solo una riverenza lessicale, come ammonisce la sentenza: «Se la merda avesse valore, i poveri nascerebbero senza il culo». E’ un altro affare. Che il fallimento delle banche o dei paesi costi carissimo a chi è già  con l’acqua alla gola l’abbiamo capito: è un ricatto, i ricatti funzionano. Il problema è il debito. I poveri falliscono, e i loro beni vanno all’asta, alla sub asta di Bankia, o — catenine dei bambini, orecchini della nonna, fedi matrimoniali — al Monte dei Pegni. Viaggiando nella periferia d’Europa mi sono fatto l’occhio, avvisto subito le file ai banchi delle lotterie e le insegne dei “Compro oro”: non occorre lo sguardo aguzzo, alla Puerta del Sol, a Madrid, la piazza degli indignados e degli innamorati, c’è un “Compro oro” di tre piani, con mezza dozzina di suoi adescatori fra i passanti. E annunciano di stare aperti 24 ore su 24. Case e cose passano di mano, materialmente. Economia reale. Negli Stati Uniti si calcola che undici milioni di case siano state perdute per la bolla immobiliare: 11 milioni! Un servizio fotografico speciale ospitato da Le Monde, che si intitola appunto “Un pays aux enchères”, ricorda che una parte di quelle case tolte ai proprietari indebitati viene rivenduta a prezzi di speculazione, un’altra parte, semplicemente, va in malora, in quartieri derelitti e deprezzati. Se si fossero lasciati i loro abitatori, non sarebbero andate in malora. Ora la doppia domanda è questa: a che punto — a che cifra, diciamo — il “salvataggio” diventa conveniente o necessario? E non è possibile che anche i paesi vadano (e vengano fatti andare) all’asta o in malora? Un paese, e anche una grande banca, coinvolge quantità  ingenti, e non può, morale a parte, essere trattato alla stregua di una persona o una famiglia sloggiata. Troppo piccola per non fallire. Però: 350 mila famiglie? E 5 milioni di disoccupati (per restare alla cifra spagnola)? Questa finanza, ammesso che ce ne sia un’altra, non è una specie di colossale Monte dei Pegni, una “Compro oro” all’ingrosso globale?
Capita a proposito la notizia su una multinazionale mineraria canadese che è riuscita a vincere le resistenze degli abitanti di una regione della Grecia e a riaprire delle miniere, in particolare di oro: si chiama proprio così, Eldorado Gold! E chi comprerà  il petrolio greco di cui si favoleggia da sempre? E’ l’ultramodernità  che permette di maneggiare i paesi del mondo ricco come un tempo (e ancora, del resto, guarda la Cina in Africa) le colonie, compresa la classe politica compradora.
Pagano i poveri, pagano gli impoveriti: si spogliano di case, di risparmi, di piccoli patrimoni di famiglia, di progetti per i figli e di figli progettati. Vanno all’asta anche i paesi: l’aveva capito quel cordiale ministro finlandese che aveva chiesto in pegno il Partenone. Forse intendeva questo Bersani, quando avvertì chi dalle Cayman o altri paradisi pensasse di comprare l’Italia. Succederà  davvero: il Foro romano, la Tour Eiffel, Las Meninas, il tram di Lisbona e il tram sotto il quale morì Gaudì. Forse è già  successo.

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