by Sergio Segio | 30 Novembre 2012 7:42
Enzo, «il re del Dubbio». Così, nel lungo dopoguerra era definito dagli amici quel commmentatore politico che impartì a più d’una generazione preziose lezioni di onestà umana e professionale. Mutavano spesso i giornali nei quali svolgeva il suo lavoro – era proverbiale il tarlo critico e autocrtitico che lo rodeva spingendolo a passaggi repentini da una testata all’altra – ma dovunque si fermasse lasciava le tracce di un’eleganza venata di pessimismo. Parlo di Enzo Forcella, del quale è appena uscito con il titolo Apologia della paura (Aragno, pagg. 350, euro 25) una larga scelta di articoli e saggi, a cura di Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, con un’affettuosa prefazione di Bernardo Valli.
Le più lontane immagini che io conservi di Forcella risalgono ai primi anni Cinquanta. Lo vedo muoversi in un ambiente autorevole: quella costellazione di intellettuali che frequentava Il Mondo di Mario Pannunzio. Più che figurare in quella «congrega», Forcella si applicava a pensare e scrivere di politica. Per un pomeriggio alla settimana il direttore lo accoglieva nel suo studio insieme a Vittorio Gorresio ed Ernesto Rossi e più tardi a Vittorio De Caprariis, perché si decidesse quale evento commentare in quegli editoriali non firmati che del Mondo erano l’anima. Nella rubrica che li ospitava, “Taccuino”, la polemica assumeva toni freddi, ironici. Leggendo quella prosa, noi più giovani ci ingegnavamo a scoprire la paternità di ciascun commento. E ci eravamo abituati a riconoscere la “variante Forcella”, una nota dissonante dal coro, uno scarto di stile, l’affacciarsi di un’obiezione. Nella vita di ogni giorno questa dote del personaggio si affermava con puntualità . Incontrandolo sulla spiaggia di Fregene, – avevano tutti e due casa lì – Alberto Ronchey restava ogni volta con l’impressione d’un addebito che il suo vecchio amico Forcella avrebbe voluto muovergli, ma che era rimasto a mezz’aria. «Enzo ha qualcosa da rimproverarmi, ma non so che cosa», diceva scherzosamente.
Quella ora edita da Aragno è, appunto, una raccolta di rimproveri d’Autore. È come se Forcella avesse voluto pronunziare i tanti “Non ci sto!” che gli imponevano la storia e l’attualità politica. Un esemplare di obiezione “storica” è il saggio Apologia della paura che dà il titolo al volume. Questo scritto – che è la prefazione a Plotone di esecuzione, il libro che Enzo compose nel 1968 con Alberto Monticone – contiene il resoconto più minuzioso che sia mai stato dedicato alla cieca severità con la quale, durante la Grande Guerra, i tribunali militari repressero ogni episodio di “renitenza”, di “viltà ”, “codardia”, “sabotaggio”, “disfattismo” di cui venissero a conoscenza. Fucilazioni o anni di carcere vennero inflitti a quei “contadini in armi” chiamati a combattere una guerra di cui non riuscivano a condividere la retorica nobiltà . Di fonte a una simile «follia sanguinaria » lo sdegno di Forcella insorge.
Per lui, il diritto alla paura e il rifiuto della morte sono, in quei tetri frangenti, l’unica pulsione razionale e degna di rispetto. E, nel difendere le ragioni di quelle povere vittime in grigioverde, l’autore esercita il suo rigore critico perfino contro personalità mitiche, come il social-interventista Gaetano Salvemini o il liberal-progressista Adolfo Omodeo.
A suo modo ammonitrice è un’altra vicenda cui l’autore dedicò attenzione: il comportamento che sia la radio che i quotidiani avevano tenuto nella catastrofe del settembre 1943, e più precisamente nei giorni fra l’8 e il 12 di quel mese, segnati dall’annunzio dell’armistizio con gli angloamericani, dalla fuga a Brindisi del re e di Badoglio e dalla repentina occupazione nazista. Alla scomparsa di ogni autorità fece riscontro un universale black-out informativo che si piegava ai divieti della censura – l’unico potere ancora in funzione – ma spesso li preveniva. Nessuno confidò al pubblico quella «cronaca incandescente ». Mentre l’Italia sprofondava, la gente veniva invitata a non «abbandonarsi ai facili allarmismi». Una condotta nella quale, al di là dello sconcerto prodotto dagli eventi, l’autore mostrava di scoprire una non contingente «rinunzia ad informare », tipica, a suo parere, del nostro Paese. Lui si confermava un celebre giornalista che fa le pulci al giornalismo, dedito all’arte della fuga
(così s’intitola ora nel volume questo sfogo di Forcella).
Di fughe rispetto alla cronaca e alla propria coscienza, Forcella ne farà poche. Passando da un giornale all’altro – Il Mondo, La Stampa, Il Giorno, L’Espresso, La Repubblica – mai si adeguò alle consegne etico-politiche prevalenti in quelle sedi. Perfino ai colleghi del Mondo rimproverava qualcosa: l’indifferenza per le scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia), la «faziosità illuministica», il rifiuto della tematica religiosa. Dovunque accettasse di scrivere, schivava ogni condizionamento di partito o di fazione, fino all’instabilità e alla rottura. In Millecinquecento lettori, quel corredo di «confessioni di un giornalista politico» che potrà dirsi la sua Bibbia – apparso dapprima sulla rivista Tempo presente, verrà ripubblicato da Donzelli nel 2004 – definì le cronache politiche di stampa e tivù «recite in famiglia», dominate da «un frasario ermetico e apologetico». Mai un articolo a sua firma ha emanato un sentore di velina. Verso la fine della sua vita scelse il silenzio, anche se gli restava tanto da dire.
Tenne per anni sepolta nel computer un’enorme documentazione sugli intellettuali che custodirono il loro antifascismo nelle segrete del Vaticano: era una documentazione tanto più curiosa ed efficace perché raccolta da uno che (come si legge nel suo saggio Frammento di un’educazione fascista, del ’74) non nascondeva d’essere stato, da giovane, favorevole al regime littorio e di provarne perenne vergogna.
Me ne diede da leggere un mucchio di fogli, avvertendomi (in una lettera del luglio 1997) che «per superare l’anoressia comunicativa» che l’opprimeva, aveva «bisogno di un interlocutore attento e disponibile ». Cercai di esserlo. Volevo convincerlo a pubblicare quella ricerca. Invano. La sua vorace autocritica ebbe la meglio. Il volume
La Resistenza in convento uscì postumo nell’autunno del 1999 (Forcella era scomparso, settantottenne, in febbraio). Fu l’ultima prova di quel laicismo integrale che era stata la sua vocazione.
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