Barack: “C’è ancora tanto lavoro da fare”

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EL’ATMOSFERA qui al quartier generale di Chicago si scalda. In Florida alle 21 locali la Cnn gli assegna un punto di vantaggio su Romney. Alla stessa ora il presidente è in vantaggio con un margine netto nello spoglio parziale in Ohio. Questi due Stati chiave gli basterebbero per blindare la vittoria. Favorevoli a Obama gli exit poll in Pennsylvania e Wisconsin, anch’essi contesi da Romney.
Verso il rivale repubblicano il presidente ha un tocco di fair play. «Mi congratulo con Mitt Romney per questa campagna appassionata. So che i suoi sostenitori sono altrettanto entusiasti e impegnati dei miei». Non è solo un gesto di civiltà  e di galateo politico, qualità  che Obama riesce a sfoggiare anche nell’ora della tensione al cardiopalmo. Il messaggio di rispetto rivolto all’altra parte, è il modo con cui Obama “apre” il capitolo successivo nella politica americana.
Senza ancora conoscere il verdetto degli elettori, il presidente ha già  in mente il dibattito che sta per aprirsi: sul bilancio 2009-2012, e sul dopo. Alcuni “paletti” indicano il percorso che dovrà  seguire chi sarà  alla Casa Bianca: c’è già  la ragionevole certezza che il Congresso rimarrà  spaccato in due. La Camera ancora ai repubblicani, il Senato alla maggioranza democratica. Dietro questa divaricazione nel potere legislativo — interlocutore indispensabile per tutte le leggi di entrata e di spesa — lui rivede il problema di governare “due Americhe” che alle urne confermano di avere dimensioni quasi equivalenti.
Obama è perseguitato dal ricordo di un discorso, quello che segnò davvero l’inizio della sua parabola politica. Non il comizio della vittoria qui a Chicago davanti a 250.000 persone a Grant Park, bensì il suo discorso alla convention democratica del luglio 2004, quella di John Kerry candidato contro George Bush. «Non c’è un’America conservatrice e un’America progressista — dice allora il semisconosciuto senatore dell’Illinois facendo il suo debutto sulla scena nazionale — ci sono gli Stati Uniti d’America». Retorica ingenua? Quell’aspirazione a una leadership unificante, capace di abbattere gli steccati e di lavorare ad un grande “riallineamento” delle appartenenze politiche, è una costante anche nella campagna del 2008, e poi nel primo biennio alla Casa Bianca. Fino alla riforma sanitaria, sulla quale ogni
compromesso con la destra si rivela impossibile, e alla vittoria del Tea Party nelle elezioni di midterm del novembre 2010. Da quel momento tutta l’agenda di Obama si arena di fronte a un ostruzionismo implacabile. Ambiente e energia, fisco e rilancio dell’occupazione, il dialogo cessa su qualsiasi tema. Colpa di una destra ormai su sempre più estreme, sostiene l’ala liberal del partito democratico. Colpa anche del presidente che non riesce a tessere alleanze trasversali dentro il Congresso, a differenza di quel che fece Bill Clinton a metà  degli anni Novanta, ribatte il nucleo moderato e centrista dei democratici.
Ma quando Obama sterza a sinistra lo fa a suo rischio e pericolo. Se sposa l’idea della Buffett Tax sui milionari, viene dipinto come un socialista che incita all’odio di classe, demonizza gli imprenditori. Se esprime simpatia per lo slogan di Occupy Wall Street contro “l’un per cento”, lo stesso Bill Clinton lo disapprova, e sconsiglia di mettersi contro i banchieri. Chi rimpiange la durezza di Franklin Delano Roosevelt nel fustigare gli eccessi del capitalismo negli anni
Venti, dimentica che Roosevelt era un patrizio bianco, rampollo di una delle più ricche dinastie newyorchesi, e poteva attaccare “i suoi” con maggiore impunità  di un afroamericano venuto dal nulla.
Obama rivede oggi la sua ultima campagna elettorale, segnata dalle stesse contraddizioni. La timidezza alla convention di Charlotte nel difendere il bilancio del proprio governo, quasi che il presidente, con un tasso di disoccupazione allora sopra l’8%, condivida un po’ della delusione della propria base. Poi gli attacchi a Romney per caratterizzarlo come un finanziere avido, un privilegiato dell’elusione fiscale. Il 3 ottobre a Denver, Colorado, arriva il “tracollo” al primo duello tv, quando il presidente sembra stanco, irritato e spiazzato per l’improvvisa svolta centrista del suo avversario. Quindi la campagna diventa «scelta fra due modelli di America, tra un’idea solidale della nazione ed un liberismo egoista». Poi la “sorpresa di ottobre”, piovuta dal cielo, l’uragano Sandy restituisce a Obama l’aureola del Commander- in-Chief.
Ma in quella svolta c’è il germe di una delusione: gli aiuti agli sfollati di New York e New Jersey arrivano lentamente, la protezione civile (Fema) non ne esce come un modello di efficienza dello Stato.
C’è un pezzo di America che sta al centro? Forse proprio quei repubblicani moderati e democratici “fiscalmente conservatori” che sono preoccupati per l’esplosione del deficit, e non credono che l’intervento statale sia un magico toccasana. Se esiste quel “centro” da sottrarre all’egemonia culturale della destra, è una sfida che i democratici devono affrontare. Obama lo indica, ancora prima di conoscere il proprio destino. Sa anche di avere varcato una data oltre la quale il suo partito comincerà  ad interrogarsi sulle candidature per la Casa Bianca nel 2016.


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