by Sergio Segio | 11 Novembre 2012 9:38
Lo scambio di cortesie fra avversari nasconde verità assai meno edificanti. La Lombardia piuttosto sarà il laboratorio in cui verificare se sia pensabile una nuova leadership di destra là dove ancora i vari clan facenti capo a Berlusconi conservano risorse e potere.
La scommessa di Gabriele Albertini è interessante proprio perché intende giocarsela sul suo buon nome. Fino al punto di volersi presentare davanti agli elettori con una lista civica chiamata “Gli onesti al potere”, la quale suscita non poche ironie visto che oggi i più influenti sponsor di Albertini si chiamano Roberto Formigoni e Ignazio La Russa. Non si tratta solo di una contraddizione personale di Albertini, costretto a rivendicare il “buongoverno” del suo predecessore come se la giunta del Pirellone non fosse stata abbattuta da una sequenza scandalosa di episodi di corruzione e infiltrazioni criminali. Con la biografia di Albertini, viene al dunque la vicenda collettiva di un establishment lombardo che nel berlusconismo, per convenienza, si è accomodato, chiudendo entrambi gli occhi nella convinzione di trarne lucrosi vantaggi, tanto sarebbe durato in eterno.
Li riconosco uno ad uno, i sostenitori di Albertini. Dai Romiti alle Shammah, dai Tronchetti Provera ai Caprotti, dal ciellino Cesana al creativo Rampello, dal bocconiano Carlo Secchi a grand commis come Mario Resca. Sono quella fattispecie di gentiluomini di mondo che piacevano tanto ai terzisti del Corriere della Sera allorquando, nei salotti milanesi, per quasi un ventennio usavano dispensarci i loro “suvvia”. “Suvvia, bisognerà pur conviverci con i berlusconiani, non fate i moralisti, troppa puzza al naso, in fondo il sistema Formigoni funziona”.
Certo che ora “Gli onesti al potere” farebbero volentieri a meno dei tweet ossessivi di Formigoni in favore di Albertini. Piacerebbe loro rivendicare una discontinuità impossibile col sistema di potere in cui si erano ben insediati e che ora gli presenta il conto: vi cediamo il passo purché voi vi presentiate come continuatori del nostro “modello lombardo”, fondato su una pratica della sussidiarietà rivelatasi come sistematica dilapidazione del bene pubblico a favore dell’interesse privato. Così Gabriele Albertini, deputato europeo del Pdl, che mai in questi anni si è lasciato sfuggire una critica a Formigoni e a Berlusconi, ora si trova ad affrontare il dilemma di questo passaggio d’epoca: riesce difficile immaginare — non solo in Lombardia, ma a livello nazionale — un nuovo uomo forte del centrodestra che non affermi la sua leadership attraverso una netta cesura col passato. In altre parole, fra i requisiti indispensabili per affermarsi come leader credibile della nuova destra italiana ci sarebbe la possibilità di guardare in faccia gli italiani, rassicurandoli: “Sono liberale, voglio legge e ordine, e perciò con Berlusconi non mi sono mai compromesso. La mia è un’altra storia”. Al momento questa personalità non s’intravede all’orizzonte.
Sebbene sia fallito il disegno di Berlusconi che per disperazione, pur di riesumare il forzaleghismo dalle ceneri della giunta lombarda, era disposto a cedere la guida del Pirellone a Roberto Maroni, nessuno ha ancora osato emanciparsi dal satrapo minaccioso che consuma il suo declino fra il rifugio di Arcore, la villa di Briatore,
la dacia di Putin. Non ne hanno la forza, e neppure la credibilità . Lo stesso Albertini che, fino a ieri, impersonava con astuzia il ruolo dell’uomo perbene nella compagnia degli affaristi, oggi si rende conto che questo gioco non è più praticabile di fronte a una cittadinanza indignata. Difatti vorrebbe presentarsi con una lista civica chiedendo al Pdl un passo indietro. Ma rischia di trovarsene al fianco un’altra dell’irrefrenabile Formigoni. E perciò non esclude di rinunciare all’impresa.
Il centrosinistra lombardo, a sua volta, si ritrova a fare i conti con errori politici non certo riducibili alla vicenda giudiziaria di Filippo Penati. Il “modello lombardo” di Formigoni, grazie alla sua longevità e alla sua tendenza inclusiva, è stato sopravvalutato da un’opposizione istituzionale che gli riconosceva caratteri innovativi con cui giustificava scelte consociative e subalterne. Quando gli scandali hanno rivelato la vera natura di quel sistema di potere, quindi, la costruzione di un progetto alternativo ha reso necessario il ricorso a personalità della società civile esterne al perimetro dei partiti. Un percorso diverso da quello realizzato vittoriosamente a Milano grazie a una leadership alternativa di natura politica, impersonata da Giuliano Pisapia, anch’egli estraneo al gruppo dirigente del centrosinistra ma dotato di idealità e virtù aggregatrici.
Umberto Ambrosoli è emerso così come figura prestigiosa, paladino della legalità , refrattario a lasciarsi rinchiudere in una logica di schieramento. Non solo e non tanto perché sul suo nome può convergere anche il centro moderato, come testimonia l’appoggio di Casini; quanto invece perché Ambrosoli è in grado di mobilitare in Lombardia vasti settori di associazionismo civico gelosi della propria autonomia dai partiti.
La sua disponibilità ha messo in crisi il meccanismo delle primarie di coalizione del centrosinistra, cui si erano già candidate figure degnissime come Alessandra Kustermann, Fabio Pizzul, Giulio Cavalli. E ora si vivono momenti di tensione. Ambrosoli rifiuta l’etichetta di uomo del centrosinistra e, sebbene tutti o quasi lo riconoscano come il candidato giusto, ora su di lui si concentrano accuse di élitarismo. Superabili quando egli manifesti disponibilità a un vasto confronto pubblico sul suo programma e a primarie che non siano più di centrosinistra ma di natura civica.
Si tratta di un passaggio cruciale che il Pd sbaglierebbe a sottovalutare, perché il prolungato sequestro delle decisioni politiche in Lombardia ha riacceso un bisogno ineludibile di partecipazione e di cittadinanza attiva. Già il Pd ha dovuto fare un passo indietro per riaccendere la speranza di una riscossa civica. Ora si tratta di connettere la prestigiosa leadership di Ambrosoli al ripristino di meccanismi democratici troppo a lungo vilipesi.
La sfida lombarda promette dunque di essere un laboratorio della riforma della politica, con più fatica a destra, ma non senza incognite anche a sinistra. Se poi alla fine metterà di fronte due candidati come Albertini e Ambrosoli che si rispettano e ristabiliscono la civiltà del confronto, tanto di guadagnato. Ma, per favore, nessuno ci venga a dire che Albertini e Ambrosoli si somigliano. La smemoratezza ha un limite.
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