Alla ricerca dell’ideologia perduta così Mosca reprime il dissenso
Poco più di quarantott’ore prima che il sito Lifenews. ru denunciasse che Maria Aliokhina, la Pussy Riot condannata a due anni di carcere e ora candidata con le compagne a personaggio dell’anno di Time, aveva subito violenze da altre detenute nel lager di Perm (uno dei punti storici della mappa del Gulag staliniano), Dmitrij Peskov aveva dichiarato, in un’intervista all’International Herald Tribune, che la Russia ha disperatamente bisogno di «un’ideologia ».
Peskov, 45 anni, è il consigliere per la comunicazione del presidente Putin, l’influente “spin doctor” dallo stile anglosassone che tiene molto ad apparire disponibile e senza pregiudizi anche verso chi è critico con il suo capo. Ma, quando parla, dietro l’impeccabile abito di sartoria e le cravatte griffate, il vecchio cremlinologo vede in controluce il funereo doppiopetto e il ciuffo di capelli bianchi di Mikhail Suslov, il custode della purezza ideologica nel ventennio brezneviano. All’Herald Tribune, versione europea del New York Times, Peskov ha detto che il dibattito sulla democrazia e i diritti umani in Russia «è terribilmente tradizionale e maledettamente noioso». Oggi «il pensiero (di Putin) è decisamente rivolto a una ideologia. L’ideologia è estremamente importante. Il patriottismo è molto importante. Senza la dedizione da parte del popolo, senza la fiducia del popolo, non ci si può aspettare un impatto positivo da ciò che si sta facendo, dal lavoro al quale ci si sta dedicando».
Una visione che può venire soltanto da chi è stato allevato nella cultura ideologica del vecchio Kgb: una cultura che prevede soprattutto un avversario da combattere e da superare. Il successo finale del comunismo, o del socialismo realizzato, era l’obiettivo e di fatto l’ideologia della vecchia Unione Sovietica (la cui scomparsa fu definita dallo stesso Putin «una tragedia della storia»). Alexander Rahr, autore di una biografia di Putin, uno degli eletti ammessi al Valdai Discussion Club, un seminario annuale in cui il presidente russo accetta di confrontarsi con esperti occidentali, sostiene che Putin «sta preparando sempre di più i russi all’idea che la Russia non appartiene all’Occidente, ancor meno alla cultura occidentale, e neppure all’Europa almeno nei termini in cui questi temi erano stati discussi negli anni 90: li sta preparando a qualcosa di diverso. Che cosa esattamente è difficile dire».
Beato il Paese che non ha bisogno di ideologia, ma si «accontenta » di principii. Come, appunto, la «tradizionale democrazia» (per citare Peskov), che Putin considera invece una debolezza, anziché una forza. Infatti lui vuole una democrazia controllata, cioè vuol dare al popolo (ai sudditi?) una sovranità limitata, come quella che l’Urss, appunto, concedeva ai Paesi satelliti, i suoi alleati forzosi dell’Europa orientale assoggettati con i carri armati al controllo del Cremlino.
Perché Putin dovrebbe aver bisogno di un’ideologia oggi? Forse perché sente che la base del Paese, soprattutto la media borghesia — che sta lentamente formandosi dopo che per decenni il sistema sovietico aveva diviso la società in due, l’élite comunista e la gleba dei “senza partito” — sta sfuggendo al suo controllo, prende coscienza di sé nonostante la repressione di quella che dovrebbe chiamarsi opposizione e invece nella Russia putiniana è ancora una forma di dissenso, come nell’Urss brezneviana.
Finché il dissenso si limitava a un oligarca come Kodorkhovskij, il boss del gigante petrolifero Yukos condannato per una sedicente “frode fiscale”, lo scandalo era limitato. La gente pensava che in fondo era una questione tra “loro”, i ricchi e i potenti, tra potere politico e oligarchi, entrambi cordialmente detestati dalla gente che non sapeva come sbarcare il lunario quotidiano con salari da fame. Lo stesso Occidente aveva reazioni contenute, più per salvare la faccia che per vera convinzione: tutto sommato la Realpolitik suggeriva di non spendersi più di tanto per un processo che aveva tuttelestimmate(penacompresa, i lavori forzati in un lager siberiano) di quelli che l’Urss riservava ai vari Amalrik, Bukovskij, Jakir, Daniel, Sinjavskij, e via enumerando. Ma oggi è l’uomo della strada coinvolto nella protesta di piazza e perfino azioni estreme come quelle delle Pussy Riot riescono a scavare un sottile fossato di dubbio nel disincantato animo russo, che con il suo Dna ancora profondamente contadino non capisce, tanto meno ama, le eccentricità dissacranti e quasi blasfeme. E Putin si sente disarmato perché l’unica reazione che conosce verso chi non sta con lui è la repressione dei manganelli della polizia antisommossa e la gattabuia nei sotterranei della vecchia Lubjanka (il tempio del Kgb, nella cui scuola si è formato). Gli manca, per educazione e per ottusa superbia derivante dalla mancanza di abitudine al confronto, l’alternativa del dialogo, della capacità di convincere con le armi della dialettica politica e soprattutto umana. Nell’intervista concessa ad alcuni giornali europei, tra cui la Repubblica, prima delle elezioni presidenziali, Putin aveva promesso che non avrebbe usato il pugno di ferro contro i “dissidenti”. Ma le rivelazioni del sito Lifenews.ru sulle violenze subite dalla Pussy Riot incarcerata a Perm, alla stessa stregua di un “dissidente” nella vecchia Urss, smascherano la sua bugia trascinando la Russia verso il baratro di un ritorno al passato.
Ecco perché Putin, attraverso il suo novello Suslov cantore della “diversità russa”, sostiene che quello che manca oggi alla Russia è un’ideologia nella quale rispecchiarsi, esaltarsi e seguire il capo che indica la strada maestra. La storia che lui ha studiato insegna che è con l’ideologia che il “vozhd”, il duce, ha sempre guidato la Russia (l’Urss) alla vittoria. Come fece Stalin negli anni dalla guerra e poi anche in quelli della pace e della ricostruzione, ma anche dell’implacabile e feroce repressione.
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