Veleni, soldi e armi sulle rotte del petrolio
Già autore del libro sulla spinosa questione del Delta del Niger (Il prossimo Golfo, edito in Italia da Altreconomia), Marriott ha da poco terminato The Oil Road («La via del petrolio»), pubblicato in Gran Bretagna da Verso. Il libro «è il risultato di uno sforzo collettivo, nello spirito del lavoro della mia organizzazione e di numerosi esponenti di varie realtà della società civile europea, come l’italiana Re:Common», ci ha detto James Marriott, che abbiamo incontrato a Londra presso la sede di Platform.
«Il nostro è un libro di viaggi», spiega, «quelli che io e il mio collega Mika Minio-Paluello abbiamo compiuto per anni seguendo la “rotta del petrolio” nella regione del Caspio, a partire da Baku, per poi andare in Georgia, in Turchia, passare per il Mar Egeo e l’Adriatico e continuare fino a Trieste e oltre le Alpi fino in Germania. Citiamo anche altri due luoghi: Londra e Washington, dove si trovano i soggetti e le istituzioni che con le loro decisioni determinano la via del petrolio. Strutturando così il libro avevamo l’intenzione di portare questa tematica così particolare nella mainstream culture, accessibile a ogni lettore medio, e impedire che fosse relegata nel silenzio – come vorrebbero invece le corporations. Noi raccontiamo come nella pratica quotidiana il petrolio arriva dal Caspio alle raffinerie nel sud della Germania, ma poi spieghiamo anche perché sono state create queste “rotte”: non per obiettivi di sviluppo e di approvvigionamento energetico, bensì per generare enormi ritorni economici. Il deus ex machina dietro il progetto è la compagnia petrolifera britannica Bp, cui tutto sommato non interessa tanto il petrolio, quanto incamerare profitti massimizzando i suoi capitali. Se potesse conseguirli producendo spaghetti lo farebbe. Ma il petrolio, a fronte di investimenti molto alti, garantisce introiti maggiori.
Quando e perché avete deciso di scriverlo?
Fin dall’inizio siamo stati molto coinvolti nella Campagna sull’oleodotto del Caspio, il Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc), di cui parliamo nel libro. Dalla fine del 2001 ci siamo sforzati di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’impatto di questo progetto sui diritti umani e sull’ambiente. La campagna puntava a impedire che il denaro pubblico fosse usato per per finanziarie un’opera di questo genere. Il nostro lavoro è stato molto efficace, ce ne siamo resi conto scrivendo il libro, perché siamo giunti a un passo dal mandare all’aria il progetto. Dopo il 2005 però è stato difficile tenere la pressione, in parte perché l’oleodotto è entrato in funzione nel giugno 2006, in parte perché alcune delle grandi organizzazioni che sostenevano la campagna si sono spostate su altri temi. Noi abbiamo continuato a monitorare la situazione, insieme a realtà come The Corner House, usando una «art strategy». Platform usa attivismo e arte in modo complementare. Ad esempio per ricordare Ken Saro Wiwa e i misfatti della Shell nel delta del Niger abbiamo realizzato a Londra un gigantesco memoriale dedicato al grande poeta e scrittore ogoni. Il libro ha seguito una strategia simile.
Ovvero?
È semplice. La Bp e le altre società coinvolte nel Btc volevano sparire, volevano che dopo la trionfale inaugurazione tutti si dimenticassero dell’oleodotto. Abbiamo scritto The Oil Road nel modo più accattivante possibile affinché nessuno dimentichi. Per questo abbiamo scelto un titolo che richiami la Via della seta, concetto molto presente nell’immaginario collettivo: ci auguriamo che presto il concetto di «via del petrolio» diventi sinonimo dell’oleodotto Btc.
Cosa avete riscontrato presso le comunità colpite dagli effetti dello sfruttamento petrolifero?
Negli anni abbiamo potuto tastare il polso della situazione in Azerbaigian, Georgia e in parte in Turchia, annotando tutte le enormi problematiche sociali sorte con la costruzione dell’oleodotto. Ma siamo andati oltre. Sappiamo che il 40% del petrolio estratto in Azerbaigian passa a Muggia, vicino Trieste. Quando siamo stati a Trieste e poi in Germania abbiamo riscontrato situazioni simili, oserei dire parallele, tra la realizzazione del Btc e la Transalpine Pipeline negli anni ’60, l’oleodotto che dall’Italia trasporta il greggio in Austria e Germania. Mi spiego. Nel nord-est Turchia il governo turco aveva un’idea ben precisa per affrontare il problema kurdo, per cui il corridoio iper-militarizzato per l’oleodotto faceva al caso suo e non ha avuto problemi a trovare un’intesa con le oil corporation. Negli anni ’60, nonostante la cosa più logica fosse far passare la Transalpine da Monfalcone, fu scelta Trieste. Anche in quel caso la popolazione locale protestò, inascoltata, ma la decisione del governo italiano aveva una forte connotazione politica: benché i costi fossero più alti, perché bisognava far passare l’oleodotto tra le dure rocce del Carso, preferì quella soluzione per ribadire la sovranità italiana in un’area contesa e, in piena Guerra Fredda, per «delimitare» il confine tra l’Occidente e la cortina di ferro.
Quali sono i principali elementi delle relazioni tra le compagnie petrolifere e i governi?
Vivono una relazione di assoluta simbiosi. Le une usano le altre e viceversa. In generale le corporations sono più forti, ma non sempre: dipende dalle rispettive dimensioni. La Bp è meno potente dell’esecutivo inglese, ma è dominante su quello dell’Azerbaigian, dove circa il 90% del Prodotto interno lordo è legato alla produzione petrolifera. Nel libro ci sono molte storie che spiegano queste situazioni. Per esempio come il governo azero e quello turco forniscono sostegno militare per la sicurezza dell’oleodotto Btc, o ancora come la Bp ha fatto sì che l’economia tedesca diventasse la più dipendente dal petrolio in tutta Europa, mentre dopo la Seconda Guerra Mondiale e ancora fino al 1960 non ne faceva quasi uso.
E le banche? Non sono attori secondari…
Sì, certo. Però bisogna distinguere tra quelle private, che cercano di massimizzare i profitti fornendo prestiti, e quelle «pubbliche», le istituzioni finanziarie internazionali come la Banca mondiale o la Banca per la Ricostruzione e lo Sviluppo, che nel caso del Btc hanno garantito un sostegno di natura soprattutto politica. E questo è un elemento spesso determinante in progetti complessi come l’oleodotto del Caspio.
L’industria petrolifera ha plasmato il mondo in relazione ai suoi bisogni. Per quanto tempo ancora lo farà ?
Allo stato attuale delle cose ancora per un bel po’, però mi preme sottolineare che l’oro nero non è ovunque così condizionante come pensiamo. Esiste un «rapporto sbilanciato», tant’è che molti posti che abbiamo visitato non usano grandi quantità di petrolio. Se scomparisse domani non ci sarebbero le stesse scene di panico che vedresti a Monaco. E non vale solo per la regione del Caspio. Certo, è paradossale che in Austria esistano villaggi «liberi dal petrolio», perché usano fonti energetiche alternative, nel cui sottosuolo passano invece gli oleodotti…
E però le alternative al petrolio esistono.
Tra tanti posti dove siamo stati mi viene in mente il villaggio di Hacalli in Azerbaigian, che ha la sua politica energetica alternativa. Non sarà perfetta, ma funziona. Sì, le alternative ci sono e sono già attuabili. Dobbiamo comprendere però che la spinta per un reale cambiamento non deve provenire dalle compagnie petrolifere. Loro fanno molti più profitti con il greggio e il gas di quanti ne farebbero producendo turbine eoliche o pannelli solari. Oggi è in atto un conflitto per sovvertire equilibri di potere molto forti, per mutare uno status quo in cui a dettare legge sono sempre gli interessi delle oil corporations. Ma è una battaglia che val la pena combattere, ne va del nostro futuro.
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