Uomini dello Stato e boss per la prima volta insieme sul banco degli imputati
PALERMO — Oggi lo Stato processa se stesso a Palermo. E prova ad avventurarsi nei suoi territori più oscuri, rovistando fra i suoi depositi di segreti, ministeri e alti comandi. È la prima volta che uomini delle istituzioni e uomini di mafia si ritrovano insieme — imputati — in un’aula di giustizia.
È l’ultima volta invece che vedremo nel bunker di Palermo il procuratore della repubblica Antonio Ingroia, il magistrato che di questa complicatissima e contestatissima inchiesta è stato l’anima, il pubblico ministero intorno al quale negli ultimi mesi si è acceso un grande fuoco di polemiche. Qui, oggi, sui banchi dell’accusa per l’apertura del giudizio sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia e poi, fra poco più di una settimana, dall’altra parte del mondo — in Guatemala — a dare la caccia ai trafficanti su incarico delle Nazioni Unite.
Stato e mafia fianco a fianco nella grande aula di Pagliarelli, periferia estrema della città circondata da borgate che hanno scritto il romanzo nero palermitano fra gli anni 80 e gli anni 90, quartieri generali di quei sicari mafiosi che, poco prima e poco dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio — si sarebbero scatenati per assaltare i palazzi del potere.
Il processo sulla trattativa parte proprio da questo punto: il negoziato con Cosa Nostra c’è stato perché alcuni uomini politici come l’ex ministro Calogero Mannino volevano salvarsi la pelle dopo l’uccisione di Salvo Lima. Per non fare la fine del “colonnello” siciliano di Giulio Andreotti (e anche protettore dell’aristocrazia mafiosa) ucciso nel marzo del 1992, qualcuno avrebbe ordinato a qualcun altro di agganciare i capi dei Corleonesi e intavolare con loro una mediazione. Per evitare altro sangue. Come è finita, purtroppo lo sappiamo. Gli uomini politici sono rimasti tutti vivi e Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono saltati in aria.
È la tesi dei procuratori palermitani, quella che sosterranno da stamattina all’udienza preliminare davanti al giudice Piergiorgio Morosini e davanti agli avvocati di 12 imputati eccellenti. Non solo Totò Riina e Bernardo Provenzano, non solo il piccolo e vaneggiante Massimo Ciancimino, ma anche l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino e lo stesso Mannino, il senatore Marcello Dell’Utri, gli ufficiali dei carabinieri Antonino Subranni e Mario Mori e Giuseppe De Donno, praticamente la catena di comando del Ros di vent’anni fa.
Tutti uno accanto all’altro — tranne Mancino — accusati di «attacco a corpo politico dello Stato», tutti citati in migliaia di carte che ricostruiscono i retroscena della trattativa. A colpi di bombe e di cancellazioni di 41 bis, con clamorose minacce e clamorosi cedimenti, promesse di non uccidere più e promesse di non “infierire” più sul popolo mafioso. Il processo dovrà accertare se loro — questi imputati — sono stati o meno i protagonisti del patto, dovrà accertare per conto di chi centinaia di mafiosi in quella stagione sono stati liberati dal carcere duro, dovrà accertare su mandato di chi gli ufficiali del Ros hanno tentato abboccamenti con Totò Riina attraverso l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Sott’accusa per avere detto il falso c’è anche il ministro della Giustizia del tempo Giovanni Conso, la sua posizione però è stata stralciata.
Non quella di Nicola Mancino — ex presidente del Senato ed ex presidente del Csm — al centro delle ormai famosissime telefonate con il Quirinale che hanno infiammato l’estate del 2012. In questo processo Mancino deve rispondere di falsa testimonianza, un’accusa solo apparentemente più lieve di quella degli altri imputati: è sospettato infatti di avere mentito. Non lo tira in ballo un pentito di mafia ma un altro ministro, il Guardasigilli Claudio Martelli. Sapeva delle trattative in corso fra i carabinieri e don Vito? Martelli dice di sì, Mancino nega. La sua difesa probabilmente chiederà subito un rinvio del giudizio palermitano in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla sorte di quelle quattro telefonate casualmente intercettate fra l’ex ministro e il presidente Napolitano, poi proverà a fare processare Nicola Mancino lontano dalla Sicilia. A Roma, dal tribunale dei ministri. Schermaglie procedurali. Le associazioni antimafia e l’unione cronisti hanno chiesto che l’udienza preliminare sia aperta al pubblico, le difese sicuramente si opporranno. Fra un mese si saprà se ci sarà il rinvio a giudizio degli imputati.
Il processo non è ancora cominciato ma si intuisce già che qualcosa manca. Manca un pentito che sveli cosa è avvenuto davvero a cavallo delle stragi. Ma non un pentito di mafia. Quello che è sempre mancato in quest’inchiesta è un pentito di Stato.
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