Una teologia in punta di penna per definire la «vera verità »

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A cinquant’anni di distanza dal Vaticano II la diatriba che divise i padri conciliari sembra non avere ancora fine. Nel 1985, al Sinodo dei vescovi per celebrare i vent’anni dalla conclusione dell’assise, ci aveva provato Giovanni Paolo II a fornire una prima lettura «rappacificatoria» evidenziando come l’evento dovesse essere interpretato in continuità  con la grande tradizione della Chiesa: un’osservazione di per sé lapalissiana, ma funzionale al bisogno di prendere le distanze da quegli ambienti che avevano visto – e più spesso ai quali veniva imputato di aver visto – nell’«aggiornamento» una rottura con la chiesa gerarchica e nel «balzo in avanti» un giusto adeguamento alla secolarizzazione imperante.
Vale la pena ricordare che il Sinodo era stato preceduto dalla pubblicazione di un libro-intervista all’allora Prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede Joseph Ratzinger, molto duro verso la ricezione del concilio da parte dei teologi della liberazione, pensatori oggetto di una sistematica azione «di contenimento» nella seconda metà  del decennio. In Europa l’onda della contestazione post-conciliare si era ritratta da tempo, era giunto il momento di riscoprire il «Vaticano II vero». L’avvenimento più rilevante nel processo di ritorno all’ordine impresso dagli ultimi due pontificati è stato la remissione della scomunica latae sententiae dichiarata nel luglio 1988 contro i quattro vescovi consacrati illecitamente da Monsignor. Lefebvre, l’alfiere del partito dell’anticoncilio. La vicenda ha sollevato polemiche che sono andate ben oltre i circuiti strettamente ecclesiali in conseguenza delle vergognose dichiarazioni negazioniste di monsignor Richard Williamson, e tuttavia proprio questo episodio ha in qualche modo deviato l’attenzione da quella che era la posta in palio: la memoria del Vaticano II e la sua attualità .
Come è stato osservato da più parti, il tentativo di riconciliazione (ancora in corso con alti e bassi) si spiega all’interno di un disegno di recupero dello «scisma» post-conciliare, disegno che di fatto si è caratterizzato come un’apertura di credito quasi incondizionata verso i tradizionalisti. Nel solco del superamento degli «opposti estremismi» si era sviluppato anche il discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana del dicembre 2005 in cui il papa aveva preso di mira la cosiddetta «ermeneutica della discontinuità  e della rottura» (dominante negli anni Settanta) contrapponendola all’«ermeneutica della riforma», quella del «Vaticano II vero» che faticosamente ma sempre più visibilmente aveva portato i suoi frutti: nel dialogo ecumenico, avanzato ma controllato, nella riforma della liturgia, in quella delle strutture della chiesa con la creazione del Sinodo dei vescovi (consultivo) e dei consigli pastorali. L’obiettivo polemico erano quelle interpretazioni teologiche ed ecclesiologiche che avevano utilizzato lo «spirito del concilio» per giustificare una visione della chiesa antigerarchica, come se il Vaticano II avesse rappresentato una nuova «assemblea costituente», un punto e a capo.
Il discorso del 2005 ha segnato i caratteri della discussione odierna per i suoi cinquant’anni, ma sarebbe eccessivo attribuirgli i suoi sviluppi più deleteri. Aggrappandosi alla tonaca del papa, gli ambienti del «nuovo» tradizionalismo intellettuale (si pensi a personaggi come Roberto De Mattei) hanno provato a estendere il biasimo del pontefice ad alcuni dei teologi più significativi del nostro tempo che hanno sposato un’idea della sinodalità , non come azzeramento, ma come spazio privilegiato per l’aggiornamento della tradizione del Vangelo in risposta alle trasformazioni dei tempi. Tra questi, pensatori importanti nella chiesa di oggi come il gesuita Christoph Theobald, il tedesco Peter Hà¼nermann e la «scuola bolognese» di Giuseppe Alberigo, cui si deve un’importante Storia del concilio Vaticano II da poco riedita nei suoi cinque volumi.
Collabora da tempo con l’Istituto per le scienze religiose Giovanni XXIII anche Giuseppe Ruggieri, teologo siciliano oramai di fama internazionale, il cui Ritrovare il concilio (Einaudi, 2012) sta fortunatamente gettando una luce diversa e lontana dalle polemiche sulle celebrazioni di questa ricorrenza. Il messaggio più importante che viene dalla sua lettura consiste nella individuazione di un nuovo paradigma ecclesiale uscito dal Vaticano II, una lettura dei «segni dei tempi» che si è tradotta in una riscoperta della Scrittura, nella fioritura della liturgia in lingua corrente, nel dialogo ebraico-cristiano e nel confronto con i non credenti. Più critico è invece il giudizio sulla realizzazione della collegialità  episcopale nel governo della chiesa e quindi sul problema della Curia. Ruggeri invita dunque ad abbattere gli steccati dello scontro di allora e a riscoprire il Vaticano II per quello che è stato e per quello che sarà . Anche per chi non crede nell’azione dello Spirito della storia e non ha fiducia in questo magistero è una bella lezione di speranza in tempi di crisi.


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