Una storia dispari
Nelle rappresentazioni della crisi cui assistiamo da tempo c’è un posto vuoto, un ospite assente o tenuto sullo sfondo senza mai dargli la parola. Si tratta della disuguaglianza – spesso evocata, certo, ma come un dato di fatto quasi naturale, su cui è impossibile intervenire e di cui è inutile, e dunque noioso, parlare. In questa situazione, in cui la crisi è raccontata solo in rapporto all’andamento dei mercati, il classico sasso nello stagno arriva dal libro di Branko Milanovic, tempestivamente tradotto da il Mulino,
Chi ha e chi non ha. Storie di disuguaglianze, con una presentazione di Gianni Toniolo. Nella crisi, che coinvolge tutti, c’è una differenza di fondo tra chi ha e chi non ha, tra chi l’affronta, quasi senza accorgersene, dal gradino più alto della scala sociale e chi la subisce, sulla carne viva, dal gradino più basso, passando per tutti gli stadi intermedi.
Senza tenere conto della disuguaglianza nessuna analisi della crisi, per quanto tecnicamente affidabile, tocca terra, ne restituisce la dinamica reale, dal momento che lascia fuori non solo i suoi effetti devastanti, ma anche le sue radici profonde. Perché – sostiene Milanovic – è vero che la responsabilità
della crisi è addebitabile in larga parte alla deregolamentazione finanziaria. Ma questa, a sua volta, nasce da una distribuzione del reddito che ha spinto le classi medie, sempre più tartassate, ad un indebitamento divenuto presto insostenibile. Senza trent’anni di crescita esponenziale della disuguaglianza, con il reddito nazionale immutato, anche negli Stati Uniti le cose sarebbero andate diversamente.
La disuguaglianza non è un destino, e neanche una costante, delle nostre società . Essa ha a che fare con la storia, con la geografia e con la politica. E anche, in senso lato, con la filosofia, vale a dire con la dimensione dell’etica. Perché alle domande su come si generi e come influisca sulla situazione economica, non può non aggiungersi un terzo interrogativo sul suo rapporto con la giustizia. Fin quando è tollerabile un mondo spaccato in due tra bulimia indotta e anoressia forzata?
In un inedito nesso tra numeri e storia Milanovic ripercorre il dibattito che nell’ultimo secolo ha proposto una interpretazione complessiva del fenomeno – alternandolo con una serie di intermezzi tratti dalla cronaca e dalla vita quotidiana, dalla letteratura e dallo sport. Per esempio, sia Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen che Anna Karenina di Tolstoj sono letti e confrontati da un punto di vista economico, mostrando come spesso amore e ricchezza abbiano una relazione inversamente proporzionale di cui tener conto, perché, in realtà , la scrittrice e lo scrittore anche di questo ci parlano. Cioè di come la disuguaglianza (calcolata nel saggio di Milanovic con sterline e rubli parametrandoli alle cifre di oggi) sia la questione principale nel dilemma di Elizabeth con Mr. Darcy e di Anna e Vrònskij.
E ovviamente, nel saggio, ci sono anche gli economisti. Se Vilfredo Pareto vede nell’ineguaglianza una sorta di legge ferrea che prescinde dai rapporti sociali, l’economista russo-americano Simon Kuznets ne fa una funzione del grado di sviluppo della società . Mentre in quelle povere la disuguaglianza è piuttosto bassa, quando l’economia entra in una fase di forte crescita, aumenta rapidamente, per poi rifluire allorché lo Stato comincia ad assumere un ruolo di equilibrio nella distribuzione delle risorse.
Da qui la delineazione di quella curva a U rovesciata, che già Tocqueville aveva diagnosticato, quando scriveva che «l’uguaglianza si incontra soltanto ai
due limiti estremi della civiltà ».
In realtà questa ipotesi, valida per alcuni Paesi, è lontana dal fornire una chiave di interpretazione globale: non solo in larga parte del mondo occidentale la risalita verso l’uguaglianza non si è verificata, ma, soprattutto nell’ultimo trentennio, la disuguaglianza si è estesa sia in termini assoluti che relativi. A partire dall’epoca di Reagan e della Thatcher, quella che doveva essere una discesa della curva differenziale si è trasformata in un nuovo picco, trasformando la U rovesciata in una S adagiata su un fianco. Le scelte neo-liberiste di molti governi occidentali, sottraendo allo Stato il ruolo redistributivo esercitato precedentemente, hanno risollevato l’asticella della disuguaglianza, vanificando il teorema di Kuznets.
Ma per spiegare questo scarto tra aspettative e risultati non basta una motivazione storica, se non le si affianca una geopolitica.
In questo incrocio tra dimensione verticale e dimensione orizzontale la ricerca di Milanovic perviene ai suoi esiti più convincenti. L’aumento della disuguaglianza
globale – appena temperata dalla straordinaria performance di Paesi fino a poco fa poveri come la Cina e l’India – è il prodotto della sovrapposizione
tra il dislivello interno ai singoli Stati e quello relativo al loro confronto, anch’esso aumentato, già a partire dalla rivoluzione industriale e poi sempre di più. Al punto che, se nel 1820 la distanza tra i Paesi più ricchi e quelli più poveri era di 3 a 1, oggi è di 100 a 1 o che, per guadagnare quanto un privilegiato guadagna in un anno, un disagiato dovrebbe lavorare due secoli. Ciò significa che i più indigenti degli Americani stanno meglio dei più abbienti dei due terzi della popolazione mondiale. Tutt’altro che restringere questo gap, come ci poteva aspettare, la globalizzazione lo ha ulteriormente allargato, perché gli operatori dei Paesi ricchi tendono ad investire in altri Paesi ricchi e perché la tecnologia avanzata non si distribuisce in maniera omogenea e gratuita.
La domanda che a questo punto si pone è relativa da un lato alla sostenibilità e dall’altro all’accettabilità di tale stato di cose. L’ondata immigratoria dei “dannati di mare”, che si sono aggiunti a quelli della terra, fornisce una risposta inquietante, anche in considerazione del numero spaventoso delle vittime. È possibile che in un mondo in cui circolano liberamente capitali, informazioni, tecnologie, gli esseri umani siano gli unici a non potersi spostare? Se la situazione non è ancora esplosa è perché manca una connessione mondiale tra i vari tipi di povertà . Ma non può reggere a lungo, sdoppiandosi in due possibilità alternative. O attraverso nuove politiche ridistributive si tornerà a far crescere il reddito dei poveri del mondo o una massa sempre più ingente di persone si riverserà in quello dei ricchi. Ma al di là della sostenibilità del sistema, si apre una questione etica, ormai ineludibile, per ciascuno di noi. A partire da quei ceti medi, in procinto di essere trascinati in basso, da cui dipende spesso l’esito delle elezioni politiche nei Paesi democratici.
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