by Sergio Segio | 17 Ottobre 2012 7:46
Raccontano a Sucre, cittadina della regione del Cauca, nel sud-ovest della Colombia, di quella notte del 7 maggio, quando un gruppo di 17 elenos – i guerriglieri dell’Eln, l’Ejército de Liberacià³n Nacional – scesero in paese dalle montagne circostanti per attaccare il locale posto di polizia. Il saldo fu di un ferito e qualche danno alle case. Erano in corso le elezioni municipali, e l’Eln voleva dire la sua. Il candidato sindaco, Hoyos, del Movimiento de Participacià³n Democrà¡tica, era il favorito (e fu eletto). Fra i punti del suo programma, l’appoggio all’organizzazione comunitaria dei Bienandantes, contadini organizzati per gestire collettivamente il locale acquedotto. «L’acqua dev’essere di tutti», dicevano loro, opponendosi ai piani normativi regionali che sostanzialmente spingono alla svendita del patrimonio idrico ad imprese private.
I Bienandantes hanno quello che si chiama un buon «potere di convocatoria», sono seguiti dalla gente, e Hoyos lo sapeva, e durante la campagna elettorale aveva inserito un punto dedicato all’acqua pubblica. Ma non fu l’unico. Quella notte l’attacco dell’Eln aveva lasciato, oltre ai soliti volantini e alla paura per gli scoppi di mortai, la cittadina ricoperta di scritte sui manifesti elettorali: «L’acqua è di tutti, l’acqua è un bene collettivo».
Ricardo Quinayas, da tutti chiamato Chonoto, assicura che il battaglione era composto tutto da donne. Un’immagine con sapore romantico ma che racconta di un paese che sta cambiando. E non solo perchè oggi dovrebbe aprirsi a Oslo lo storico incontro fra il governo colombiano e i guerriglieri delle Farc (a cui l’Eln «per ora» non partecipa direttamente anche se è stata confermata l’esistenza di «conversazioni» in corso) che potrebbe mettere la parola fine al conflitto militare più antico dell’America latina attraverso una soluzione politica. Intorno si respira un cauto ottimismo e c’è la forte richiesta di una partecipazione della società civile a questo percorso che si annuncia difficile. Richiesta raccolta anche dagli studenti colombiani, che il 4 ottobre hanno fatto partire «la settimana dell’indignazione», con appuntamenti in varie parti del paese.
«Il tema dei beni comuni, delle risorse, della loro gestione, è centrale nella dimensione del conflitto della Colombia”, racconta Padre Alberto Franco, sacerdote colombiano della Comisin Justicia y Paz, storica organizzazione per i diritti umani che dall’88 è in prima linea al fianco delle comunità contadine, indigene ed afro-discendenti, vittime della guerra e degli sfollamenti forzati. Padre Alberto è in Italia e in Europa per una serie di incontri ed è in procinto di recarsi in Norvegia. «In questo momento recuperare la logica del bene comune, che storicamente appartiene alle popolazioni originarie, significa scontrarsi con il sistema neo-liberista. Il capitale è oggi alla base del conflitto colombiano. Camminare verso la pace, in Colombia, significa disinnescare le cause dell’ingiustizia sociale. La guerra colombiana si è concentrata in regioni dove la politica estrattivista dei governi Uribe prima e Santos adesso – in particolare le coltivazioni intensive di agro-combustibili, i mega-progetti come la diga del Quimbo, il saccheggio delle risorse petrolifere e minerarie – ha radici più profonde. E’ evidente la connessione fra il potere politico ed il potere militare, in Colombia. Ma la società civile, le comunità , si stanno organizzando: non solo prendendo coscienza sempre più delle reali cause del conflitto, ma cercando di proteggere i propri territori con una gestione collettiva, creando zone umanitarie e di protezione della bio-diversità , in antitesi con le privatizzazioni e i furti di terra».
L’acqua potabile, che in Colombia è accessibile a meno della metà della popolazione, ne è un esempio: gli acquedotti comunitari, imprese famigliari, collettive o comunitarie, danno oggi da bere a più di 4 milioni di persone. Si sono costituite in una rete nazionale, hanno una visione globale della gestione del territorio, si oppongono alle miniere a cielo aperto, alla distruzione delle montagne, all’avvelenamento delle fonti con i metalli pesanti. E nei territori degli sfollamenti forzati, per cui la Colombia è seconda solo al Camerun nelle classifiche mondiali con 5-7 milioni di profughi interni, la gestione collettiva del bene comune acqua oltre a garantire la sopravvivenza della gente che ritorna nelle proprie terre originarie, aiuta queste comunità a ritrovare un’identità collettiva.
L’attuale presidente, Juan Manuel Santos, ha voluto dare un segnale forte con l’apertura, il 27 agosto scorso, dei negoziati. «Entrambe le parti si sono rese conto che la soluzione militare non porta più a niente – spiega ancora Franco -, la guerra allontana gli investitori, visto che in molti territori le Farc hanno concentrato le azioni militari contro le multinazionali. Ma non dobbiamo dimenticare chi è Santos. Lui ed Uribe sono due momenti diversi di uno stesso cammino. La politica sociale è quasi la stessa, ma l’attuale presidente è un po’ più “sociale”, abbracciando lo stile del nonno, Eduardo Santos, avvocato, giornalista e proprietario del quotidiano El Tiempo che governò negli anni ’30. Ne sono un esempio la promulgazione delle leggi “sulla terra” e “sulle vittime”, che dovrebbero legalizzare le proprietà di molte terre, che hanno aspetti criticabili ma che creano consenso. L’attuale presidente è apparentemente meno radicale del predecessore, che era legato a doppio mandato a frange narcos e paramilitari. Si potrebbe dire che ammazza con più eleganza e più lentezza». Perché, spiega, appoggia un sistema economico brutale con le masse povere, che aumenta l’iniquità del paese e non placa le conflittualità legate alle risorse.
In Colombia si continuano a trovare fosse comuni : Uribe lanciava nel 2002 la fase della «seguridad democratica», il pugno duro contro le guerriglie, ma nessuno sta veramente pagando per quelle migliaia di morti, tantomeno Santos che era allora ministro degli interni e della difesa.
Manuel Santos ha fatto comunque passi sorprendenti, negli ultimi mesi: dialoga con il presidente venezuelano Hugo Chà¡vez, il nemico giurato di Uribe che sarà anche uno degli «accompagnatore» dei prossimi negoziati di pace a Cuba, insieme al Cile. Un disegno che «fa parte di una strategia studiata, che vuole presentare un’altra faccia alla comunità internazionale, e che però non modifica le relazioni di potere all’interno del paese – dice -. Anche l’apparente litigiosità fra Santos e Uribe la definirei con quello che dice la gente: un matrimonio, dove si litiga in pubblico, ma in privato non si arriva mai alla rottura», conclude padre Alberto.
A proposito, essendo lui un prete, tutto questo la chiesa come si pone? «La chiesa cattolica si è presentata come una delle parti di mediazione nel processo di pace, ma fino a oggi ha tenuto posizioni molto timide, che non mettono in discussione il modello capitalista».
Al tavolo dei negoziati di Oslo non siederà alcun rappresentante della società civile. «Noi invece, che appoggiamo i negoziati con speranza, stiamo spingendo perchè i rappresentanti delle organizzazioni indigene, contadine, afro-discendenti, delle donne, degli studenti, di tutte le vittime che in questi decenni hanno pagato in prima persona il dazio più pesante al conflitto, debbano poter avere voce in questo cammino verso la pace, che altrimenti non produrrà il reale cambiamento di modello di cui abbiamo bisogno».
Dice Danilo Rueda, della Commissione Justicia y Paz, che abbiamo recentemente incontrato a Bogotà¡, «con la diminuzione del flusso di denaro che il Plan Colombia aveva ffarantito alle casse dello stato, l’attuale governo si è dovuto riorganizzare. In quest’ultimo anno gli attacchi alla multinazionali sono aumentati. Mercosud, Alba e anche Usa e Cina hanno fatto capire che l’insicurezza giuridica e militare mette in crisi la crescita degli interessi».
La situazione geopolitica ed economica della Colombia spinge Santos a cercare la pace. Sono le cifre a parlare: dopo 8 anni di governo Uribe e 2 di Santos, le guerriglie possono contare ancora su un radicamento notevole in molti dipartimenti. «Almeno 3000 quelli dell’Eln e 8000 quelli delle Farc – dice Rueda -. Di questo passo ci vorrebbero altri 20 anni». Rueda vede i rischi concreti di questi negoziati: «Il modello estrattivista non viene messo in discussione e il tema della terra resta al punto numero uno del dialogo con Farc-Eln. La pace non è solo deporre le armi. Ci vorrebbero delimitazioni reali all’economia estrattivista, ovvero una democrazia dove anche l’aspetto della difesa ambientale e delle scelte economiche siano compresi. Dove le organizzazioni civili siano realmente coinvolte. E dove non esista più il trattato di libero commercio con gli Usa. Dobbiamo cominciare a ragionare abbattendo barriere. Perché la pace non ha senso senza giustizia sociale».
* della Associazione Yaku
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