Un «vuoto» nel carcere

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Ma più modestamente, la curiosità  di capire se un gruppo di strane persone, che avevano intrapreso a Spoleto un certo discorso di discontinuità  rispetto al loro passato, erano in grado di mantenere questa promessa anche per il futuro. Ho sempre pensato che l’art. 27 della Costituzione bisognerebbe intitolarlo «I care». Esperienza, all’inizio, fatta di entusiasmo per l’improvvisa scoperta di avere a portata di mano la possibilità  di raccontare il proprio vissuto non come storia personale da rimuovere in gran parte, ma come piano-seguenza, dove ogni momento della vita si presenta scandalosamente col suo vero peso specifico.
Sarebbe interessante leggere, per capirne il senso, cosa scrive Mariano Ciro nel libro «Volete sapere chi sono io? Racconti dal carcere» (Mondadori); o Carmelo Musumeci in «Undici ore d’amore» (Gabrielli).
Il loro trasferimento ha fatto smarrire uno spirito positivo tra la popolazione detenuta alimentata da iniziative culturali, da dibattiti in gruppi informali e no che plasmavano le voci di dentro su quote di pensiero fuori dallo schematismo nevrotico di cui è fatta l’istituzione totale, ed ha anche creato una certa amarezza perché è stato rescisso un legame costruito con fatica. Alcuni di questi detenuti sono arrivati a Spoleto dopo un lungo peregrinare da un carcere all’altro, «come ultima spiaggia» gli è stato dato come messaggio. Evidentemente, c’è sempre un’ultima dell’ultima spiaggia. Ed è un bene. Per aver coltivato questa idea è facile agitare il sospetto di un cedimento al sentimentalismo d’antan, pur sempre in agguato specie in situazioni di convivenza forzata. Questa, sappiamo, predispone a vedere l’interlocutore quasi solo dal lato positivo, non fosse altro che è quello più a buon mercato. E in ogni caso, già  il farsi accettare innesca nell’altro un giuoco psicologico gratificante.
Il tutto s’è tradotto, poi, in uno stare al giuoco che ha dato luogo ad una sintesi che possiamo condensare come l’inizio destabilizzante. E non è da escludere che l’allontanamento di questi detenuti sia dipeso da una sorta di malinteso, forse per un eccesso di valutazione autarchica rispetto a quello che bolliva in pentola in questo stare al giuoco. Per esempio, sollevare il tema dell’ergastolo ostativo può aver generato dei sospetti? Eppure, la questione è stata posta con intelligenza e pacatezza: mai che si ricordi sia stata presentata attraverso una rivendicazione ottusa. Ogni intervento prospettava, sì, uno sfondo culturale nuovo per superare la fattispecie di chiusura ovvero la sentenza n. 35 del 2003 della Corte Costituzionale. Ma parallelamente gli interessati al dibattito si domandavano come ciò fosse possibile per loro vita (non di altre) per la metamorfosi che sentivano intima e come valore aggiunto. Paradossalmente, è come se sia stato sollevato un contenzioso ad personam ponendo sul piatto una nuova presa di coscienza, a dimostrazione della rottura col passato criminale di queste persone. Senza trovare, però, un alter ego per vagliarne la consistenza ideologica, in quanto la norma preposta a ciò esclude a priori che una nuova presa di coscienza in materia sia possibile. Ora, la speranza è che nulla si disperda di tanto impegno e lavoro. In particolare i detenuti interessati non abbandonino la strada intrapresa e siano seminatori di buone prassi, pur consapevoli che non è più possibile né ripetere né riprendere l’esperienza di Spoleto. L’incantesimo s’è spezzato e soltanto un rewind è in grado di creare l’illusione filmica di un ritorno al futuro.
* direttore aggiunto casa di reclusione di Spoleto


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