Turchia-Siria chi cammina sull’orlo del cratere

by Sergio Segio | 5 Ottobre 2012 7:44

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Pare che la prudenza non sia una virtù dei turchi, ma pur rispondendo con energia all’uccisione di una famiglia rimasta vittima dei tiri d’artiglieria dell’esercito siriano in una zona di confine, il governo di Ankara si è ben guardato dall’andar oltre una rappresaglia destinata soltanto a salvare la faccia. Non ha minacciato un vero intervento. E la Nato, di cui la Turchia è un’importante componente, ha espresso la sua solidarietà . Nulla di più. Il governo di Damasco, è vero, si è scusato.
Sono in molti ad auspicare la fine del regime di Bashar el Assad, giudicandolo una dittatura sanguinaria e senza avvenire, ma sono anche in molti a temere le conseguenze di quella fine.
È FORSE per questo che i sostenitori dei ribelli centellinano gli aiuti. Mentre l’esercito lealista, quello di Damasco, usufruisce della generosità  dei suoi alleati russi e iraniani. Quanto siano spilorci i primi e di manica larga i secondi lo vedi sul terreno. I Mig 21 e gli elicotteri governativi possono scorrazzare sui territori “liberati” senza imbattersi in un’antiaerea efficace, quindi bombardano e mitragliano senza correre grandi rischi. Gli insorti essendo per lo più dotati soltanto di armi leggere, quando vogliono colpire le zone controllate dal regime devono ricorrere alle autobomba, spesso guidate da prigionieri costretti a sacrificarsi come kamikaze.
Non si intravede nel futuro scrutabile una soluzione del conflitto. Per ora non ci sono in vista né vinti né vincitori. Né si scorge la possibilità  di una tregua, di un compromesso tra le parti. Anche perché l’Esercito siriano libero è in realtà  un mosaico di movimenti e milizie di varie tendenze, senza un comando unico sul piano nazionale. Ed è quindi difficile identificare un interlocutore valido. Pur essendo male armata e pur disponendo di meno uomini (un decimo dei più di trecentomila soldati lealisti) l’insurrezione appare in vantaggio sul campo di battaglia perché il regime di Damasco non osa impiegare tutto il suo pletorico esercito. Per impedire le diserzioni non vuole che esso venga a contatto con i ribelli o con la popolazione dei territori contesi. Si limita quindi a usare aerei, elicotteri e unità  blindate (i T72 russi) che servono da artiglieria.
Insomma adotta sempre di più la guerra a distanza, che infligge pesanti danni alla ribellione, ma che non favorisce il controllo del territorio. Le diserzioni
sono state per più di un anno la grande risorsa in uomini e in armi dell’Esercito siriano libero. Ahmed Qunatri, un ex ufficiale adesso comandante di un’unità  ribelle nelle regioni del Nord, confessa che da alcuni mesi deve ricorrere a svariati espedienti per convincere i soldati lealisti a cambiar campo. Ha cominciato a praticare un’azione psicologica; a offrire vantaggi in denaro; a ricorrere a mezzi coercitivi. «Degni del diavolo», ammette. E non è comunque facile. Anche perché la polizia di Damasco colpisce le famiglie dei disertori. Inoltre le azioni terroristiche spengono la simpatia per l’insurrezione della gente, e quindi dei soldati richiamati alle armi. Consapevoli di questo, pochi giorni fa i gruppi ribelli operanti nella zona hanno cercato di attribuire ai governativi l’attacco suicida, che aveva appena ucciso quaranta persone in un quartiere di Aleppo, ma poi una milizia affiliata o ispirata da Al Qaeda (Jabhet al-Nusra) l’ha rivendicato.
Le milizie estremiste, indicate come jihadiste o salafite, non prevalgono tuttavia nel vasto mosaico dell’insurrezione. La propaganda governativa ne esagera l’importanza per spaventare la popolazione, in particolare i cristiani. Un sondaggio tra gli insorti condotto da siriani per conto di vari organismi americani (International Republican Institute, Pechter Polls of Princeton, N. J., Carleton University ed altri), ha rilevato una forte maggioranza di moderati per quanto riguarda l’eventuale applicazione di principi islamici. Il riferimento alle democrazie occidentali è risultato frequente, e quindi il rispetto per le minoranze religiose. L’esempio del governo turco, dominato da un partito musulmano moderato, è stato il più citato.
A parte la Turchia del primo ministro Erdogan, spesso evocato anche nel resto del Medio Oriente, i paesi che appoggiano la ribellione siriana si distinguono per la loro ricchezza. Non certo per il clima di libertà  che regna entro i loro confini. Il Qatar e l’Arabia Saudita sono infatti i principali finanziatori dell’insurrezione armata. Lo sono soprattutto in quanto sunniti. Pur essendo in concorrenza tra di loro. Il Qatar, piccolo Stato con un grande portafogli gonfio di petrodollari, era presente anche in Libia. Con il suo dinamismo politico-finanziario vuole evidentemente rimediare all’esiguità  del territorio nazionale, e gareggiare con la grande Arabia Saudita.
Entrambi i paesi favoriscono in Siria i movimenti dei Fratelli Musulmani o di quelli simili, la cui intensità  islamica è variabile. Il loro fervore politico-religioso si è intiepidito negli ultimi anni. Ma, nella grande famiglia sunnita, la corrente wahabita (vale a dire saudita) resta più intensa di quella prevalente nel Qatar. E sarebbe questa la causa del dissidio che spesso esplode tra i due paesi. Ed è allora che interviene la mediazione turca.
Arabia Saudita, Qatar e Turchia sono gli acrobatici sostenitori della ribellione siriana, che non vogliono correre il rischio di essere direttamente implicati, che si muovono appunto in bilico sull’orlo del cratere senza caderci dentro, ma che sono fermi nell’intenzione di plasmare la Siria del dopo-Assad. Essi sono appoggiati in questa loro azione dalle potenze occidentali, Stati Uniti in testa, vigilanti ma anch’esse superprudenti. Forniscono aiuti umanitari ai profughi e mezzi di comunicazione ai ribelli. Per ora niente di più.
La guerra civile siriana ricorda quella di vent’anni fa nei Balcani. I conflitti etnici si confondono con quelli religiosi. Nell’Oriente complicato (da affrontare con idee semplici) lo scontro è tra sunniti e sciiti, divisi dalla diversa interpretazione dell’Islam ma anche dalla Storia e nel presente dalla lotta per l’influenza nella regione. La Siria, benché a maggioranza sunnita, è governata dalla minoranza alawita, che ha radici sciite. Ed è l’alleata dell’Iran, la grande nazione sciita. La quale è direttamente implicata a fianco di Bashar al Assad. Non solo perché gli fornisce armi e munizioni attraverso l’Iraq, dove c’è un governo dominato dagli sciiti, ma perché dei pasdaran sono presenti in Siria, pare nella veste di ottimi cecchini. La prova? Di recente sarebbe stato sepolto con tutti gli onori a Teheran un pasdaran ucciso a Damasco. E gli Stati Uniti, ancora presenti a Bagdad, hanno invitato il governo iracheno a non lasciar passare nel suo spazio aereo gli apparecchi diretti in Siria, con a bordo armi e soldati. Se gli Stati Uniti, e i paesi occidentali, sono tra le quinte dell’insurrezione siriana, la Russia rifornisce di armi e munizioni il regime di Assad. E’ un frammento dimenticato della guerra fredda.
La Siria è anzitutto una trincea dell’Iran. La più importante dopo la guerra che ha opposto negli anni Ottanta l’Iran di Khomeini all’Iraq di Saddam Hussein. Oggi per Teheran la Siria è “la linea di resistenza” all’imperialismo. La resistenza agli Stati Uniti, che impone le sanzioni, e a Israele, che vorrebbe distruggere le centrali atomiche iraniane. La guerra civile siriana riassume cosi altri conflitti. Sottoposto a sanzioni sempre più pesanti, per la sua indisciplina nucleare, l’Iran vive una stagione difficile. La sua moneta si è svalutata del quaranta per cento nell’ultima settimana rispetto al dollaro, e si sono accese manifestazioni di protesta, le prime dopo quelle soffocate nel 2009, l’anno delle elezioni truccate. Se l’insurrezione siriana dovesse trionfare, gli ayatollah perderebbero il loro grande alleato in un momento critico. Rimarrebbero isolati. Gli hezbollah, i loro amici sciiti libanesi puntati come una spada contro Israele, sarebbero ancora più lontani. Per Teheran si annuncia una possibile grande sconfitta. Anche qui, in Libano, con gli hezbollah in casa e la Siria ai confini, si guarda con apprensione a un futuro che potrebbe essere molto vicino.

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