by Sergio Segio | 19 Ottobre 2012 7:35
GLI spread in fase di sgonfiamento rapido, politici e banchieri che si affannano a dichiarare di aver visto la luce in fondo al tunnel della recessione europea, le Borse in positivo, un vorticare di proposte sull’unione fiscale e su quella bancaria. L’Europa vive un altro dei suoi momenti di euforia: problemi e ostacoli non mancano nel vertice in corso a Bruxelles, ma nessuno – secondo la versione più diffusa – sembra in grado, come prima dell’estate, di far saltare l’euro o rimettere in discussione la costruzione europea. In realtà , non mancano gli scettici, secondo i quali, ad esempio, l’inevitabile bancarotta greca è rinviata solo di qualche mese. Ma l’ottimismo si nutre di fatti concreti, in particolare quelli venuti da Francoforte. Come molti avevano previsto da tempo, è bastato che Draghi e la Bce mettessero in campo un sia pur farraginoso meccanismo di protezione, con la disponibilità a comprare titoli pubblici dei paesi in difficoltà , perché la tempesta sul debito spagnolo e italiano si placasse, ancor prima che la banca centrale abbia messo in campo un solo euro.
A dar ragione a chi, a Francoforte, sosteneva Draghi e l’opportunità dell’intervento è il comportamento degli spread. Ieri il divario fra i rendimenti dei titoli italiani a due anni e gli omologhi tedeschi era di 195 punti (2,06% il tasso sui titoli italiani, contro lo 0,11% dei tedeschi). Contemporaneamente, il tasso sui Btp a 10 anni era sceso al 4,79%. Sono due numeri estremamente istruttivi. Circa 200 punti, infatti, secondo banche, studiosi, organismi internazionali è, più o meno, il divario fra titoli italiani e tedeschi, giustificato dai dati fondamentali delle rispettive economie.
Allo stesso tempo, il 4,79% sui Btp decennali è grosso modo in linea con la tendenza storica e, comunque, è il livello della primavera 2011, prima che la crisi investisse il debito italiano. In altre parole, l’annuncio dell’intervento Bce non ha artificialmente depresso rendimenti e spread. Semplicemente, eliminata l’ipotesi di un ritorno alla lira, la situazione del debito è tornata normale e si è interrotta la fuga dei capitali. Lo sbiadire dell’emergenza consente di guardare con qualche serenità in più alla situazione dell’economia. Che resta – in Italia e in Europa – pessima: il 2012 si chiuderà con una pesante recessione e il 2013 regalerà ai più fortunati solo una pallida ripresa e agli altri, come l’Italia, un ulteriore rallentamento. Tuttavia, è diffusa l’impressione che la crisi stia toccando, in questi mesi, il fondo e che stia per iniziare una sia pur lenta
risalita che dovrebbe allentare, almeno un poco, le tensioni sociali che, in questo momento, scuotono molti paesi dell’eurozona. Sotto questo profilo, incide anche il mutamento del clima psicologico – o, più propriamente, ideologico – che ha finora presieduto alla strategia europea anti-crisi. L’insistenza quasi ossessiva sull’austerità si è ammorbidita, grazie anche alla campagna dell’Fmi che, ormai da tempo, batte sui contraccolpi che un risanamento troppo frettoloso dei bilanci pubblici può avere sulla crescita. Olivier Blanchard, il capoeconomista dell’Fmi, ha recentemente calcolato che, nella situazione attuale in cui uno stimolo monetario non è possibile, perché i tassi d’interesse sono già vicini allo zero e il volano delle esportazioni è fermo, tagli e rincari di tasse possono strangolare l’economia in misura anche doppia o tripla,
rispetto a quanto prevedano i tradizionali modelli econometrici. Nasce anche da queste riflessioni la spinta a concedere alla Grecia, vittima-modello delle politiche di austerità , un paio d’anni in più per risanare.
La situazione, tuttavia, resta estremamente fragile. Non sarebbe la prima volta che l’euforia si spegne di colpo e neanche la prima volta che i politici europei tradiscono le aspettative. Le bucce di banana su cui l’eurozona può scivolare, nel summit in corso o nelle prossime settimane, sono abbastanza chiaramente visibili. La prima, naturalmente, è la Grecia: accettare uno slittamento di due anni nel raddrizzamento dei conti greci significa mettere in cantiere qualche nuova forma d’aiuto, che tenga in piedi lo Stato greco per due anni. Non farlo, però, riaprirebbe il count-down alla
bancarotta di Atene e all’effetto domino dell’attacco dei mercati a Italia e Spagna. La seconda è la Spagna. L’idea, accarezzata da paesi come Germania, Olanda e Finlandia, che i buchi che hanno messo in ginocchio, negli anni scorsi, le banche spagnole non possano essere colmati da aiuti europei, ma debbano ricadere sul governo di Madrid significa riaprire la crisi del debito spagnolo e riavviare la trottola degli spread. La più insidiosa, però, è nel principale oggetto del summit in corso a Bruxelles: l’unione bancaria. Un organismo unico europeo di supervisione, controllo e intervento viene considerato l’unico modo per rompere il circolo vizioso, in base al quale le banche si indebitano per soccorrere i bilanci statali e gli Stati, subito dopo, si indebitano per salvare le banche. Nessuno si aspetta dal vertice in corso a Bruxelles svolte decisive. Ma i mercati si aspettano che la spinta verso la costituzione dell’unione bancaria non si attenui e non si areni, ad esempio, sulle resistenze tedesche a cedere il controllo su quelle casse di risparmio locali, che sono un asse portante degli schieramenti politici nazionali.
Di solito, è quando le urgenze economiche si incrociano con il ciclo politico che l’Europa è più fragile. Da questo punto di vista, il tempo a disposizione per le iniziative coraggiose è assai ridotto. Presto, ogni mossa della Merkel avrà un impatto diretto sulla campagna per le elezioni politiche d’autunno in Germania. E gli amanti di scenari forti possono chiedersi quale effetto domino avrebbe un default greco a inizio 2013, a ridosso delle elezioni italiane.
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