SALVATE MONTI DALLA SUA AGENDA
Come si giustifica questo cortocircuito? E come si può reggere una contraddizione così forte? La spiegazione è una sola: Monti è ormai sempre più separato dalla sua Agenda. Questa operazione di “chirurgia politica” l’hanno già fatta gli italiani, con l’innato buon senso del quale nonostante tutto sono ancora provvisti. I sondaggi di questi mesi sono eloquenti. Nonostante le difficoltà della fase, Monti riscuote un tasso di fiducia che resta altissimo. L’Atlante Politico di Demos dà il premier al 55,2%, Ipr al 53, Euromedia al 43,9 e Swg al 42. Secondo Ipsos il 54% degli italiani dà un giudizio positivo sul presidente.
Tuttavia, se dal giudizio sulla persona si passa a quello sull’azione del governo il quadro cambia radicalmente. Per Demos, il 66% degli italiani boccia la manovra sull’Imu, il 66% la riforma delle pensioni, il 60% quella del mercato del lavoro. Per Ipsos, il 48% degli italiani si dichiara nettamente contrario alle misure sull’Irpef e sull’Iva varate con la legge di stabilità . L’opinione pubblica ha dunque già compiuto il «distacco»: riconosce l’alto valore di Monti, ma esprime un forte disvalore per alcune scelte adottate dal suo governo.
Bisogna dirlo con chiarezza: gli italiani hanno ragione. La cosiddetta «Agenda Monti» è un passo avanti rispetto al passato. Al premier va dato atto di aver salvato il Paese dalla bancarotta nella quale lo stava trascinando Berlusconi, con interventi dolorosi ma tempestivi (a partire dal decreto Salva-Italia del dicembre 2011). Ma non si può non vedere ciò che tutti noi vediamo e sentiamo sulla nostra pelle. Alcuni provvedimenti, per quanto doverosi, si sono dimostrati lacunosi e in qualche caso anche dannosi.
La reintroduzione dell’Imu è stata necessaria, per ridare autonomia finanziaria agli enti locali: ma la portata e la distribuzione del prelievo hanno penalizzato le famiglie meno abbienti. La riforma previdenziale è stata opportuna per mettere in sicurezza il bilancio «inter-generazionale»: ma il dramma oggettivo degli esodati è uno scandalo della democrazia, mal gestito e tuttora irrisolto. La riforma del mercato del lavoro era indispensabile, per limitare il precariato e avvicinare la disciplina dei licenziamenti agli standard del modello «socialdemocratico » tedesco: ma il compromesso raggiunto, sulle «nuove» tipologie contrattuali, sul «nuovo» articolo 18 e soprattutto sugli ammortizzatori sociali inesistenti, è del tutto insoddisfacente. La promessa di grandi multinazionali pronte a investire in Italia grazie alla maggiore «flessibilità » del sistema, si è rivelata quanto meno incauta, per non dire di peggio. Non si vedono colossi globali, in fila ai confini nazionali. In compenso, se ne vanno l’Ikea dall’Umbria e la British Gas dalla Puglia.
Infine la legge di stabilità , licenziata solo una settimana fa. Per quanto sia stato apprezzabile il tentativo di avviare un percorso di riduzione della pressione fiscale, attraverso l’abbattimento delle prime due aliquote della curva dell’Irpef, anche questa manovra è diventata un disastroso boomerang. Non tanto per l’effetto contrario prodotto dal contemporaneo aumento di 1 punto dell’aliquota Iva, quanto per la contestuale riduzione delle franchigie sulle detrazioni e deduzioni dalla stessa imposta personale, che ha finito per azzerare del tutto il beneficio fiscale, e per trasformarlo in molti casi in un vero e proprio maleficio. Ancora una volta, a carico dei più deboli.
Se a questo si aggiungono sacrifici ulteriori e francamente odiosi (come il giro di vite sull’assistenza agli invalidi, sui contratti di fornitura nella sanità e sugli orari e gli stipendi dei docenti della scuola) e vere e proprie occasioni mancate (come le liberalizzazioni delle professioni e dei servizi pubblici locali e le norme anti-corruzione) l’elenco degli errori in «Agenda» è completo. Non è un caso se oggi il governo, pressato da un fronte bipartisan Pd-Pdl-Udc, si vede costretto a tentare un’indecorosa marcia indietro sulla legge di stabilità , e un velleitario rilancio sul voto di scambio e la prescrizione «lunga». Ma il risultato parziale, e ormai forse finale, non cambia. La misura del rigore è colma, il piatto dell’equità e della crescita continua ad essere miseramente vuoto.
Monti paga in parte anche colpe non sue. La prima tra tutte è il fattore di blocco rappresentato da una Coalizione che è Grande per l’aritmetica, ma non per la politica. La seconda è una squadra ministeriale non sempre all’altezza. Lo dimostrano le troppe e inaccettabili gaffe della Fornero: l’ultima di ieri, sui giovani che non devono essere «schizzinosi » nella scelta della prima occupazione, è vergognosa perché sbattuta in faccia a una nazione che ha il record europeo della disoccupazione giovanile e del precariato. E poi le opinabili fughe in avanti di Profumo, o le discutibili promesse di sviluppo di Passera. La terza è una coazione a ripetere delle tecnostrutture, che a partire dai capi di gabinetto tende a ritirare fuori dai cassetti dei rispettivi dicasteri soluzioni già viste e già scartate, piuttosto che idee nuove e mai sperimentate.
Dire questo non significa segare l’albero sul quale è seduto il Professore. Significa solo riconoscere i limiti politici e le tare genetiche di un governo che ha operato in condizioni di assoluta emergenza, interna e internazionale, che grazie all’uomo che lo guida ha comunque riportato l’Italia agli onori del mondo, ma che su alcuni punti del suo programma ha deluso le attese. Significa auspicare che la semina di questi mesi non vada perduta (soprattutto per la parte che riguarda l’ancoraggio all’Europa
e agli impegni che l’Unione richiede) ma vada doverosamente integrata, rafforzata e corretta con quegli elementi di vera «economia sociale di mercato » che i tecnici non hanno saputo esprimere.
Nel contesto generale, significa uscire dal trito schematismo di una resa dei conti tra rigoristi e sviluppisti. Di una battaglia per l’egemonia tra svolte neo-keynesiane e resistenze neo-liberiste (che pure hanno oggettivamente e rovinosamente dominato il campo in questi anni). Non c’è più un modello unico da prendere e da adottare in blocco, ma soluzioni articolate e complesse da inventare e testare con coraggio e fantasia. Significa non buttare al macero la disciplina di bilancio e la fine del «deficit spending», ma ripensare i vincoli di una teorica «austerità espansiva» che in tutta Europa ha generato, insieme a una severa ortodossia finanziaria e contabile, nuova recessione e nuova disoccupazione.
Nello specifico italiano, significa fare un uso dinamico dei fondi recuperati sull’evasione, e di rimetterli nel circuito famiglie-imprese con una riforma fiscale che gravi più sulle rendite e sui patrimoni e meno sul lavoro. Significa usare i risparmi previdenziali per finanziare un dignitoso sistema di tutele a chi non ha o ha perso la propria occupazione. Significa non sfasciare l’intera riforma delle pensioni con la «clava» del ddl Damiano, ma recepire di quel testo almeno la parte che copre le decine di migliaia di persone rimaste senza pensione e senza stipendio, per effetto della chiusura delle «finestre» e del parallelo aumento dell’età pensionabile.
Non si tratta, brutalmente, di «rottamare» l’Agenda Monti. E chi nel Pd usa questa formula commette lo stesso errore, semantico e politico, compiuto in questi mesi e su un altro piano da Matteo Renzi. La rottamazione evoca di per sé l’idea di una «liquidazione», totale e definitiva, di un’intera esperienza politica. Così non si rende un buon servizio né al Professore, né alla sinistra, né al Paese. Comunque vadano le elezioni, nella prossima legislatura ci potrà essere ancora bisogno di Monti. Ma scrivere la nuova Agenda, salvando il buono che pure c’è in quella vecchia, spetterà alla politica. Sempre che abbia l’ambizione e la forza per farlo.
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