ROMNEY RIAPRE LA PARTITA
La discussione è avvenuta a Denver (Colorado), mercoledì sera (giovedì alle tre del mattino ora italiana), è durata 90 minuti ed è stata moderata dal giornalista Jim Lehrer (che in realtà è stato stroncato per non aver moderato un bel nulla). Non ci sono stati attacchi personali e non si è parlato affatto di politica estera (tranne i rapporti economici con la Cina con cui Romney dice di voler sbattere i pugni sul tavolo, se eletto, per ridurre il deficit commerciale).
Nell’evitare la politica estera, i contendenti si sono certo attenuti al programma che voleva questo dibattito dedicato solo alle questioni interne ma forse lo hanno fatto anche perché Romney si sentiva insicuro su questo terreno infido, e Obama temeva di pagare gli scivoloni sull’uccisione dell’ambasciatore statunitense in Libia, Christopher Stevens.
In ogni caso, questo primo scontro in tv ha riaperto una partita che sembrava chiusa e ha rilanciato la candidatura di Romney che pareva già condannata.
Le domande a cui rispondere sono tre: 1) quali sono i fattori che hanno determinato la sconfitta di Obama? 2) perché mai Obama ha adottato una strategia che si è rilevata suicidaria? 3) quanto effettivamente peserà il risultato del dibattito sull’esito del voto?
Il primo, forse decisivo elemento di debolezza è venuto dalla comunicazione non verbale, dal body language. Mentre Romney guardava il suo interlocutore e il suo corpo era continuamente proteso in un atteggiamento di sfida (d’altronde è questa la parte assegnatagli dal copione elettorale), Obama aveva spesso gli occhi bassi ed evitava di guardare negli occhi Romney. Non per nulla El Pais ha detto che Obama ha affrontato il dibattito «sulla difensiva e capizbajo (che vuol dire nello stesso tempo ‘a testa bassa’ e ‘abbacchiato’, ‘mogio’). Un commentatore l’ha definito «arrugginito», altri «disarmato». Chris Matthews della Msnbc si chiede dove fosse il presidente in quell’ora e mezzo: «Sembrava che stesse aspettando solo che finisse».
Il linguaggio del corpo era solo il riflesso fisico dell’atteggiamento mentale. Obama non è mai stato un aggressivo, come indole se può rifiuta lo scontro, cerca il compromesso, non è un polemista, piuttosto un professore. Ma stavolta ha esagerato. Il New York Times, pur apertamente schierato con i democratici e con il presidente, nel suo commento, dopo aver elencato le menzogne pronunciate da Romney, ha accusato Obama di avergliele passate tutte, senza reagire e ha concluso che se vuole sperare di essere rieletto deve dar prova di ben altra aggressività nei prossimi due dibattiti.
Che Romney abbia mentito spudoratamente era sotto gli occhi di tutti, eppure non gli è stato mai rinfacciato. Il candidato repubblicano ha vuto la faccia tosta di presentarsi come il paladino della classe media e Obama non ha ritenuto utile ricordargli quel che aveva detto del 47% degli americani di cui non gli frega nulla.
Altra bugia: Romney ha negato di voler ridurre le tasse ai ricchi dopo che ha fatto ininterrottamente campagna su questo tema. Ha negato di voler accrescere il deficit, senza spiegare mai in cosa consistono le detrazioni che vuole abolire (mentre è chiaro che sono le quelle a favore dei ceti disagiati che vuole colpire). Romney ha detto di difendere i piccoli imprenditori e non le grandi corporations, ma Obama non ha considerato opportuno ricordargli l’attività di Bain Capital, la compagnia di servizi finanziari specializzata in smantellamenti di ditte e licenziamenti, di cui Romney è stato cofondatore e a lungo amministratore delegato. Romney ha detto che lungi da lui l’intenzione di smantellare Medicare, quando invece il piano di voucher che propone proprio a questo mira, ma anche qui le sue intenzioni non sono state smascherate. Obama ha lasciato passare anche l’attacco alla propria riforma sanitaria, senza giocare sul fatto che interi articoli di questa riforma sono stati copiati da quella firmata da Romney quando era governatore del Massachusetts. Insomma, gliele ha lasciate correre tutte.
Forse era disorientato dalla piroetta politica che Romney ha compiuto nel dibattito. Il candidato dell’estrema destra e ligio al Tea Party ha improvvisamente assunto le sembianze del moderato difensore dei ceti medi. Si è persino tolto lo sfizio di accusare Obama di essere stato troppo generoso con la finanza newyorkese («è la più grande leccata ai banchieri di Wall street che io abbia mai visto. Per loro è stata una manna colossale»). Ha accusato Obama di aver foraggiato a piene mani i propri finanziatori attraverso compagnie di economia verde («di cui la metà già fallite», ha rigirato il coltello nella piaga). Ha rincuorato gli inquinatori: «io amo il carbone» ha esclamato, riecheggiando la Convention repubblicana del 2008 a Minneapolis quando la platea aveva intonato in coro «Drill, baby drill!» (drill vuol dire «scavare i pozzi» di petrolio).
Perciò Obama può essere stato spiazzato dal cinismo, dalla sfrontatezza dello sfidante, dal suo cambiare le carte in tavola, da questo barare a viso aperto. Romney è spesso accusato di essere un voltagabbana, uno che dice quel che pensa l’auditorio voglia sentirsi dire, indipendentemente da quel che ha detto un’ora prima, di essere un contenitore vuoto pronto a plasmarsi in qualunque forma gli si richieda. Ma nel dibattito Romney ha compiuto un’operazione notevole: ha fatto di questa sua debolezza un elemento di forza, ha messo in campo la sua capacità di sgusciare.
C’è però qualcosa di diverso, in Obama, oltre allo spaesamento, all’essere stato preso in contropiede.
L’impressione è che in realtà Obama abbia affrontato il dibattito pensando di avere già vinto, sottovalutando l’avversario, credendo di avere già saldamente occupato il centro, di essere portavoce di quel centrismo che invece si è visto scippare dalle mani da un avversario che in una sola sera è passato da grande capitalista spietato a difensore dei ceti medi che soffrono sotto Obama.
Rimane da valutare, come ha fatto il Guardian, quanto la vittoria in un dibattito tv pesi davvero sul voto del 6 novembre. L’impatto dipende da quanti sono effettivamente gli elettori che andranno davvero a votare e che sono tuttora indecisi.
L’impressione è che gli Stati uniti siano troppo polarizzati, che siano spaccati in due. Parlando con i repubblicani, capisci che loro vivono in un mondo diverso, non ricordano che il deficit è stato gonfiato da George Bush e dalle due guerre in Iraq e Afghanistan, mentre loro l’attribuiscono tutto a Obama. Diciamo che se Obama avesse vinto questo primo dibattito, non c’era più storia. Così invece può sperare nei prossimi due, il 16 e il 22 ottobre: se ribalterà l’andamento del primo, disastroso confronto, nulla sarà perduto. Se invece confermerà la sua mollezza e remissività , allora avrà a disposizione per rimproverarselo tutto il resto della sua vita.
Tutto ciò a meno di variabili esterne come un crollo dell’euro, un precipitare della recessione in Cina, o un attacco preventivo israeliano in Iran. Ma indipendentemente da queste eventualità , il grido unanime che viene dai suoi sostenitori, su Twitter o negli editoriali dei giornali “amici”, è: «Presidente datti una mossa».
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