by Sergio Segio | 8 Ottobre 2012 8:13
Il 18 luglio il sindaco del paese, Domenico Lucano, aveva iniziato uno sciopero della fame[1] insieme a altre persone, per poi interromperlo una settimana dopo dietro promessa dell’imminente arrivo dei fondi stanziati dal governo per accogliere 120 persone fuggite dalla Libia in guerra. A Riace era arrivato anche Franco Gabrielli, capo dipartimento della protezione civile nazionale nonché commissario delegato per l’emergenza umanitaria del nord Africa. La situazione sembrava però statica: niente rimborsi delle spese già sostenute ai diversi creditori locali, con la conseguenza di bloccare servizi di base per i migranti ospitati, partendo dall’approvvigionamento alimentare. Con il blocco della statale i migranti sottolineavano così una contraddizione: Riace, epicentro di politiche di accoglienza[2] vitali per la comunità locale, non riusciva a dar da mangiare agli ultimi arrivati.
Il blocco della strada, durato alcune ore, ne ricorda un altro. Siamo nel maggio 2011, centinaia di persone fuggono ogni giorno da una Libia divisa in due dal conflitto interno e sorvolata pericolosamente dagli aerei militari NATO. A pochi chilometri dal confine con la Tunisia il campo per “profughi” di Choucha[3] è una tendopoli sovraffollata, gestita dall’Alto Commissariato per i Rifugiati con la collaborazione di organizzazioni internazionali e locali. Le tende si aggrappano a una terra secca, ricoperta di sabbia, che il vento del vicino mare solleva e attacca ai volti di migliaia di rifugiati. L’acqua potabile è poca, il cibo sempre uguale, i disagi sono quotidiani. Il 24 maggio in cento, forse duecento, occupano la P1, la strada che porta al confine libico, affollata rotta di commerci. Automobilisti e camionisti si buttano nella sabbia del deserto per aggirarli, ma una lezione va data e la mattina dopo arrivano a decine, con bastoni e benzina. Il campo è demolito[4], i morti sono cinque o più, i feriti non si contano.
I blocchi della statale ionica 106 e della P1 tunisina, su due sponde opposte del mare nostrum, raccontano la rabbia di chi ha perso molto a causa della guerra e si trova di fronte a precarietà , incertezza assoluta, incomprensione. A risposte violente o nel migliore dei casi indifferenti, in Italia come in tutti i paesi confinanti con la Libia. A un anno e mezzo dall’avvio del piano nazionale di accoglienza per i rifugiati (6 aprile 2011) e a 90 giorni dalla conclusione dello “stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini provenienti dal Nord Africa[5]”, la sorte delle 25 mila persone giunte nella penisola rimane problematica, con un rischio forte di ricadute sugli enti locali che le hanno ospitate, sul fragile sistema italiano di accoglienza e di tutela giuridica dei richiedenti asilo e naturalmente sui rifugiati stessi.
Le “Primavere arabe” hanno aperto speranze e frontiere. Le rivolte tunisine prima e la guerra libica poi sospendono temporaneamente le politiche di contenimento dell’immigrazione e consentono l’arrivo via mare di migliaia di tunisini in cerca di un futuro migliore e di 25 mila persone residenti in Libia, costrette a partire dalle violenze quotidiane. Il governo tentenna, fino alla decisione del ministro Maroni di decretare lo stato di emergenza e di approntare un piano di accoglienza[6]. Il 5 aprile 2011 la situazione di oltre 10 mila tunisini, illegittimamente trattenuti in Centri di Identificazione e Espulsione e in altri centri, è regolarizzata rilasciando di un permesso di soggiorno per protezione temporanea[7], previsto dal testo unico sull’immigrazione all’art. 20. Gli arrivi dalla Tunisia rallentano, anche in virtù di nuovi accordi intergovernativi, mentre quelli dalla Libia proseguono fino ai primi di settembre, quando Lampedusa è dichiarata “porto non sicuro”[8]. Tutti i migranti sbarcati nell’isola fino a quella data sono inseriti in un piano di accoglienza che prevede una distribuzione regione per regione secondo una quota proporzionale alla popolazione.
Il piano di accoglienza ha il merito di offrire servizi di base indispensabili, ma le criticità sono molte. Sul piano politico, come evidenziato dagli attivisti del progetto Melting Pot[9], lo stato di emergenza è frutto di una costruzione politico-mediatica che mirava a trasmettere l’immagine di un governo rigoroso nel contrasto all’immigrazione “clandestina” e al contempo rispettoso dei diritti umani, o per lo meno del diritto d’asilo. Le dichiarazioni di Berlusconi sull’imminente “tsunami umano[10]” diffondono l’idea di un’invasione di migranti. I numeri non lasciano però dubbi: l’Italia ha ricevuto una percentuale minima delle 900 mila persone[11] che hanno lasciato la Libia e un numero di richieste di asilo[12] inferiori nell’anno a quelle di altri paesi europei[13]. L’affidamento alla protezione civile di un ruolo centrale vuole invece depoliticizzare l’intervento, rimettendo responsabilità a tecnici, e al contempo creare un terzo canale di accoglienza[14] dei rifugiati accanto all’efficace ma insufficiente Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – SPRAR e agli inefficaci e costosi Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo. Un sistema emergenziale e per ciò stesso non valutabile e soprattutto non valutato, se non su iniziativa degli enti locali[15]: l’azione di un gruppo di monitoraggio e assistenza[16] di cui fanno parte anche SPRAR e UNHCR evidenzia sì le estreme difformità dell’accoglienza, che va dai “progetti integrati” (alloggio, accompagnamento psico-sociale, formazione ecc.) ai bed and breakfast senza nessuna progettualità , ma non cambia la situazione. La collaborazione fra stato e enti locali, spesso impreparati a accogliere rifugiati, è poi improntata a un dirigismo per cui – sostiene Melting Pot – “un’altra vittima dell’emergenza è la democrazia istituzionale locale”.
Altrettanto critico è l’aspetto dello status giuridico dei migranti. Mentre parte dei cittadini tunisini ottiene una protezione temporanea, chi arriva dalla Libia è costretto a presentare domanda di protezione internazionale[17], l’asilo, in palese contraddizione con la soggettività e la volontarietà alla base della domanda stessa. I libici sono una minoranza risicata, mentre prevalgono somali, sudanesi, eritrei, nigerini, ciadiani, maliani, nigeriani, burkinabè, ivoriani e cittadini di paesi della fascia sub-sahariana e alcuni palestinesi, marocchini, bengalesi. La protezione internazionale e altre forme di protezione valutano la situazione di rischio personale del richiedente nel paese “di cui possiede la cittadinanza[18]”, dunque non in Libia. E’ così che, nonostante l’invito[19] del Tavolo Nazionale Asilo a considerare in senso ampio le cause della fuga e la situazione di ogni migrante, le commissioni territoriali per l’esame della domanda di asilo decretano numerosi dinieghi. Sono molte le voci[20] che si levano per il rilascio di un permesso per motivi umanitari[21], ma il governo tecnico di Monti non si avventura in decisioni politicamente sensibili, con la conseguenza di intasare i tribunali con i ricorsi presentati dai migranti e di continuare, sulla falsariga dell’esecutivo precedente, a non riconoscere la specificità del diritto di asilo.
Il 31 dicembre 2012, giorno di chiusura della fase emergenziale, offre prospettive vaghe[22]. Già a luglio la conferenza delle regioni[23] ha lanciato delle “linee guida per il superamento dell’emergenza nord Africa[24]”, approvate il 26 settembre dalla Conferenza Unificata[25] Stato-Regioni, per chiedere, nelle parole di Daniela Di Capua, referente nazionale SPRAR, “un allargamento strutturale della rete SPRAR, la condivisione di interventi di accoglienza volti all’inclusione sociale delle persone e l’applicazione di una procedura per il rilascio di una forma di protezione a richiedenti protezione internazionale rientranti nei flussi di arrivo del 2011 dalla Libia”. “La possibilità di un permesso di soggiorno per i tanti ancora in una situazione di incertezza sta diventando – continua Di Capua – una realtà concreta e spero ci sarà presto una conferma in questo senso”. Se dunque lo status giuridico di chi è scappato dalla Libia in guerra potrebbe essere rivalutato a breve, con modalità ancora non chiare[26], rimane l’incognita, per le 18 mila persone ancora accolte, di un tetto e di un futuro di integrazione lavorativa. La sofferenza economica[27] del governo come quella del mercato del lavoro, che colpisce i più deboli, migranti e italiani, non deve diventare alibi per chiusure politiche e per un abbassamento nella tutela dei diritti.
Invece di costringere a bloccare strade, potremmo chiedere allora ai “profughi” e a noi stessi di costruirne, di percorrerle insieme, per uscire da una visione emergenziale dell’immigrazione[28], sterile e pericolosa.
Giacomo Zandonini[29]
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