Quelle vaghe stelle dell’Orsa che segnano la via dei grandi

by Sergio Segio | 5 Ottobre 2012 7:42

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Piero Boitani è una persona miracolosa, o mostruosa. Sono suo amico, e gli telefono volentieri. È chiacchierone, lieto, di buon umore, pettegolo, e con lui si parla piacevolmente per ore. Ma è quasi impossibile. Al telefono non risponde. Insegna all’università  di Roma, oppure a quella di Lugano, oppure in un’università  degli Stati Uniti. E se non insegna tiene una conferenza a Pechino, a Melbourne, a Boston, a Parigi, a Cambridge, a Oxford, ad Aosta, a Friburgo. Se non tiene conferenze, viaggia dappertutto o partecipa a congressi, riunioni, o dirige fondazioni.

Qualcuno potrebbe credere che non abbia tempo per studiare. Ma è vero il contrario: Boitani è una delle persone più colte che esistano tra gli studiosi italiani di letteratura (e non solo di letteratura).
Con ogni probabilità  non dorme: fissa gli occhi vigilissimi sulle poesie, i romanzi e i quadri: o possiede un’ innaturale capacità  di concentrazione; riesce a intendere in un’ora quello per cui io avrei bisogno di una settimana. Sa tutto, e capisce tutto, nei minimi dettagli e nei minimi aspetti.
Ci sono diverse forme di critica letteraria. In una si dedicano anni all’analisi di un testo: dieci righe di poesia, una pagina di romanzo. In un’altra forma, quella praticata da Boitani, si raccolgono migliaia di relazioni e di analogie, le si illuminano a vicenda, per cui qualsiasi cosa si scrive è sempre un’analisi del tutto.
È il caso di uno splendido e immenso libro appena uscito: Il grande racconto delle stelle (edito dal Mulino, con 615 pagine e 256 illustrazioni), dove Piero Boitani racconta tutto quello che è stato immaginato sulle stelle, i soli, le galassie, le lune: romanzi, poesie, musica, pittura, filosofia, astronomia, dall’Iliade a Wallace Stevens e Paul Celan; in qualsiasi lingua, anche in quelle orientali che gli sono meno familiari.
Ogni pagina è precisa ed esatta: i dettagli s’incastrano nei dettagli, senza che vi sia mai nulla di approssimativo e generico. Tutto nasce sotto il segno di un passo famoso dell’Iliade:
«Quelli stettero tutta la notte lungo i sentieri di guerra/ a coltivare grandi speranze, e molti fuochi erano accesi./ Come quando le stelle nel cielo attorno alla luna che splende,/ appaiono visibilissime, mentre l’aria è senza vento;/ e appaiono tutte le rupi e le cime dei colli e delle valli;/ e uno spazio indicibile si apre sotto la volta del cielo. / E si vedono tutte le stelle, e gioisce il pastore in cuor suo:/ tanti falò splendevano tra le navi e il letto di Xanto,/ quando i troiani accesero i fuochi davanti alle mura di Ilio».
Nel 1809, Giacomo Leopardi undicenne lesse per la prima volta l’Iliade. Quel passo lo colpì straordinariamente e influenzò per sempre il suo mondo e la sua poesia. Amava lo spazio immenso, la centralità  della luce, l’assenza di vento, le precisione dello sguardo, che fissa le cime, i colli e le valli, e la presenza del pastore, chissà  dove, «che gioisce in cuor suo». La figura del pastore è la stessa di Piero Boitani critico che racconta il tappeto del cielo e scorge dovunque calma, quiete, entusiasmo, esaltazione, vastità , precisione: o, come dice san Tommaso, integritas, consonantia e claritas.
Ogni tanto, nel libro si avverte un rimpianto, Boitani teme di non aver ricordato tutte le stelle, tutti i soli, tutte le galassie, che appaiono in musica, letteratura o pittura. Forse, nell’angolo di un poema persiano, si nasconde veramente una luna dimenticata. Mi sembra difficile che Piero Boitani abbia dimenticato qualcosa. Ma, se l’avesse fatto, il suo libro sarebbe ancora più perfetto: solo una lacuna o una lacerazione, o una dimenticanza, rendono il tutto intero e senza macchia.

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