Quella vergogna degli umani in gabbia

by Sergio Segio | 1 Ottobre 2012 5:16

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CHE cosa ha detto il presidente Napolitano sullo stato delle carceri, e perché l’ha detto? La domanda non è oziosa, dal momento che c’è chi ha ritenuto di rispondere che l’ha detto perché ha voluto sfruttare il caso Sallusti.
E ANDARE al soccorso della casta sotto tiro, o perché è stato reso sensibile dalla divergenza con la procura di Palermo… Napolitano è l’unico interprete di se stesso, ma chi abbia appena seguito la drammatica questione carceraria conosce i precedenti che ridicolizzano, se ce ne fosse bisogno, quelle insinuazioni. Prima di arrivare al Quirinale, nel 2005, Napolitano prese parte alla marcia per l’amnistia indetta dai radicali. Una volta presidente, controfirmò la misura dell’indulto, e, come il primo ministro Prodi e a differenza di troppi altri, non sconfessò mai la fondatezza di quella misura. Oltre un anno fa, in un convegno al Senato che fece scalpore per il rango e il tono degli intervenuti, Napolitano parlò di «una realtà  che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana — fino all’impulso a togliersi la vita — di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo… Un abisso separa la realtà  carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità  della persona. È una realtà  non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita… «.
Allora e poi ripetutamente, Napolitano ha evocato «un’emergenza assillante», una «prepotente urgenza», e deplorato «l’incapacità  della politica a produrre scelte coraggiose, coerenti e condivise». Le forti dichiarazioni dell’altro giorno seguivano l’incontro con un gruppo di giuristi autori di un appello, convocato da tempo — ben prima dei casi giudiziari che riempiono le cronache di questi giorni. Dunque Napolitano ha ribadito una posizione che gli appartiene fermamente. Non c’è dubbio che l’abbia fatto in termini più forti che mai, soprattutto riguardo alla questione spinosissima delle misure di clemenza. Anche qui gli strafalcioni non sono mancati. Si è letto che «i padri costituenti hanno voluto» l’articolo 79 che impone, per il varo di amnistia e indulto, una maggioranza addirittura dei due terzi del Parlamento: ma quella maggioranza così enorme non ha a che fare coi padri costituenti, bensì coi loro storditi pronipoti, che nel 1992 votarono la modifica costituzionale, per coprire le “ultime” misure d’indulgenza destinate alla classe politica in tempesta: era il loro infantile «Ci perdoniamo,
e non lo faremo più», dopo di che hanno continuato in tanti prodigamente a farlo, e hanno chiuso a tripla mandata le galere dei poveracci. Fino al 2006 dell’indulto, episodio decisivo dei nuovi tempi politici, sul quale la lezione non è stata ancora tratta, quando non la si sia tratta alla rovescia.
Chiunque avesse un’esperienza vissuta o dottrinale del problema sapeva allora, e avvertì, che l’indulto senza amnistia non avrebbe arrecato sollievo alla crisi della giustizia, perché l’indulto riduce la pena ma non estingue il reato, dunque non tocca la discarica enorme di processi pendenti che intasano i tribunali e si traducono nell’ingiustizia ulteriore delle prescrizioni, a vantaggio degli imputati ricchi, che usano avvocati e pratiche dilatorie. Contro l’indulto si orchestrò una campagna virulenta, facendo leva su un’opinione allarmata dalla sicurezza quotidiana e sui dubbi sinceri che la tradizione stessa della clemenza suscita. Si ottenne che “almeno” all’amnistia non si arrivasse, mutilando così l’indulto del suo complemento necessario: non sarebbe uscito nessun delinquente, si sarebbero svuotati gli armadi. Si ammonì che l’indulto era tagliato sulla misura di Cesare Previti, che ne sarebbe stato liberato, o dei responsabili dell’Eternit, che sarebbero scampati al processo. Previti era già  comodamente installato a casa sua, e passata la campagna nessuno perde più tempo a nominarlo. Quanto all’Eternit, le condanne sono arrivate e hanno fatto scuola. Nessuno se ne è ricordato.
Il punto sul quale il bilancio poteva esser fatto più esattamente, quello della pericolosità  per la sicurezza sociale dell’uscita di alcune migliaia di persone dal carcere, mostrò che fra i beneficiari dell’indulto la percentuale di recidivi era più bassa — com’è enormemente più bassa per chi sconti una pena alternativa alla reclusione in cella. Se il sollievo atteso al sovraffollamento non durò a lungo, e oggi si tocca un nuovo record di detenuti (67mila, in uno spazio per 45mila), lo si dovette al fatto che l’indulto non fu accompagnato dalle promesse misure di depenalizzazione e di pene alternative, e al contrario si vararono o aggravarono leggi, contro i tossicodipendenti o gli stranieri, fatte apposta per riempire le galere di persone di scarto. Fino alla legge aberrante che esclude dalle misure alternative i recidivi, anche e soprattutto
per quei reati suscitati dalla dipendenza ai quali la recidiva è connaturata, dal momento che non ci si buca una sola volta nella vita. La verità  è che quella campagna, che inaugurò il tempo che doveva essere nuovo del governo Prodi, gli diede un primo e irreparato colpo politico, e fece molto per risuscitare Berlusconi e berlusconisti, i quali, votato l’indulto, furono ben felici di starsene alla larga e di assistere all’incolpazione degli “inciuci” a sinistra. Quando ci si chiede se una demagogia “giustizialista” valga da nuova cattiva destra, si rifletta a quell’episodio e ai suoi esiti.
Quando Napolitano riparla oggi di amnistia e indulto, e sottopone drammaticamente all’attenzione del Parlamento il peso paralizzante della norma costituzionale sui due terzi, sa bene di sollevare un macigno,
dal punto di vista della popolarità . “Popolare”, nel senso peggiore, fu quella ipocrita innovazione costituzionale del 1992 — non bastò, del resto, a impedire che buona parte della classe politica che l’aveva inscenata venisse spazzata via. Da mesi i radicali e Marco Pannella personalmente, che hanno il merito di un’attenzione strenua allo scandalo delle carceri e al conflitto fra la giustizia italiana e i pronunciamenti europei, rimproverano duramente a Napolitano di essersi tirato indietro dalle proprie stesse affermazioni, e gli chiedono perentoriamente di rivolgersi al Parlamento attraverso la forma solenne del messaggio presidenziale alle Camere.
Napolitano aveva evidentemente valutato che il messaggio alle Camere non potesse aspettarsi alcuna accoglienza concretamente positiva, e potesse anzi tradursi in un affossamento. Le cose che ha detto sono anche un messaggio informale ma esplicito alle Camere, compresa l’allusione al fatto che un impegno adeguato non possa che appartenere al prossimo Parlamento. Questo è il contesto passato e presente dell’intervento del capo dello Stato, anche lui vicino al passaggio di mano. Più importante di tutto è la premura e la vergogna per la condizione degli esseri umani che stanno in gabbia come nemmeno le bestie dovrebbero — e più del 40 per cento sono non giudicati definitivamente; e anche per la condizione di chi sta a guardia delle gabbie, e troppo spesso non ce la fa più. Ma è importante anche riconoscere le implicazioni politiche e prima civili e culturali della discussione sul carcere e la giustizia. Oggi, salve fiammate di cronaca, l’allarme sulla sicurezza si è attenuato, se non altro perché si è attenuato provvisoriamente l’allarmismo; in cambio, il rigetto nei confronti di comportamenti pubblici — dei nuovi ricchi della politica, delle cene di Trimalcione — spinge a invocare la galera. La legge contro la corruzione è un buon modo di trarne la conseguenza. Altri no, e se ne constati un repertorio squadernato nei siti delegati, dove si affollano i commenti a Napolitano, scritti con la penna con cui si scrive, chi non resista, nei cessi della stazione.

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