Quel governatore Joker che ride sulle rovine della Gotham city meneghina

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DENTRO rimane asserragliata una classe politica che perfino i boss della ’ndrangheta schifano sul piano etico. La brava gente che va a lavorare per le strade dell’Isola, già  bellissimo quartiere sventrato da colate di cemento, leva lo sguardo al “grattacielo dell’eccellenza”, com’è stato battezzato nel delirio generale, e lancia crudeli auspici. L’altro giorno il corteo degli studenti ha provato ad avvicinarsi e sono partite le manganellate. Per simpatia i commercianti di corso Como hanno poi offerto da bere ai ragazzi.
Al trentacinquesimo piano, nel punto più alto della città , molto sopra la Madonnina, c’è un uomo solo che guarda i resti di una capitale morale e ride. Roberto Formigoni ride. Gli indagano il quattordicesimo consigliere e il settimo assessore, gli arrestano collaboratori e amici, lo scoprono a mentire su rapporti e vacanze, gli pende sulla testa un rinvio a giudizio per corruzione. E lui ride. Ride in televisione e in conferenza stampa, mentre insulta un altro giornalista di Repubblica, rideva anche prima di essere aggredito a Lecco.
Il ghigno di Formigoni è ormai un tratto grafico, un logo, un simbolo. Sembra il Joker dei fumetti. Negli ultimi tempi veste anche con gli stessi colori pastello, dalla giacca arancione boom in giù. È il simbolo di una povera Milano ridotta a una Gotham nostrana, percorsa dalla peste della corruzione, dove il Joker siede al centro del potere e non si vede un Batman all’orizzonte. Se si esclude qualche macchietta, come quel simpatico pirla, nel senso di girovago, del figlio della Moratti, che si era fatto la bat-casa abusiva.
Formi-joker ride perché è ancora convinto di cavarsela, nonostante tutto. Per vent’anni ha governato un sistema politico affaristico senza paragoni nella storia d’Italia, sostenuto da un consenso quasi plebiscitario e da un ferreo controllo del territorio. Un sistema dal quale perfino la ’ndrangheta ha ancora molto da imparare. Il Celeste non può credere che tutto stia crollando così. Per mano di chi, poi? La Lega del dopo Bossi è debole e divisa fra le colombe di Bobo Maroni e i falchi di Matteo Salvini, Berlusconi può giusto dare ordini ad Alfano, la sinistra in Lombardia non esiste da alcuni decenni e le occorrerà  tempo per reinventarsi come alternativa. Formigoni si sente ancora più forte di loro, risponde con perentori ultimatum ai timidi penultimatum di Maroni, studia contromosse e strategie, minaccia elezioni subito per ottenere il contrario, una proroga di mesi, forse un anno. A Maroni e Alfano offre in cambio una nuova legge elettorale proporzionale, oggi di gran moda, che salvi la destra dalla disfatta e con la gentile collaborazione del Movimento 5 Stelle consegni una regione ingovernabile a un qualche simulacro di governo tecnico. Una specie di parodia lombarda del governo Monti, con qualche professore pescato da Bocconi e Cattolica. Meglio se fra gli amici di Cl, che sono tanti e ovunque.
Riuscirà  il nostro antieroe nell’ennesima impresa? Mai dire mai, nella povera Gotham meneghina. Ma l’impressione è che il Formigoni ridens sia fuori dalla realtà  ormai da tempo. Chi è troppo sicuro non è più abbastanza vigile e sono mesi che il Celeste sottovaluta la portata degli eventi, il battere alle porte di una rivoluzione più profonda di quella del ‘92, abortita nel berlusconismo. Formigoni ha sottovalutato le conseguenza dei tre traumi che, uno in fila all’altro, hanno sconvolto l’anno scorso la mappa dei poteri milanesi e lombardi, cristallizzati per un ventennio. Nell’ordine, la vittoria di Pisapia, il crac del San Raffaele e gli sviluppi dell’inchiesta del pool di Milano sulla ’ndrangheta.
La vittoria di Giuliano Pisapia ha spazzato in un colpo solo il campo dal berlusconismo, nella sua capitale, e dall’opposizione di sua maestà , incarnata dal Pd di Penati e del «sistema Sesto». Con il nuovo sindaco il governatore pensava di trovare comunque un accordo sul tavolo dell’Expo, ma non l’ha mai trovato. Al contrario si è visto bloccare dall’amministratore delegato Giuseppe Sala ogni appalto al minimo sospetto. Un mese dopo la rivoluzione arancione di Pisapia, l’esplosione della colossale bolla del San Raffaele, un miliardo e mezzo di buco in un ospedale solo, ha demolito il mito fondante della fortuna politica del governatore, l’eccellenza della sanità  lombarda. Lo scandalo, il crac, il suicidio di Mario Cal e le inchieste hanno portato alla luce il ruolo chiave del munifico finanziatore di svaghi presidenziali, quel Pierluigi Daccò che il governatore fingeva al principio di non conoscere. Il terzo errore capitale è stato di sottostimare la capacità  di «resistere, resistere, resistere» del palazzo di giustizia di Milano.
In fondo a un ventennio di sistematica demolizione politica e mediatica, di guerra quotidiana alle “toghe rosse” da parte dell’apparato berlusconiano con la complicità  di un bel pezzo d’opposizione, di pestaggi mirati come quello a Ilda Boccassini, di pensionamenti e promozioni e rimozioni di tutti i magistrati del pool di Mani Pulite, ebbene il “sistema lombardo” pensava di essersi tolto dalle scatole il principale ostacolo al felice trionfo della corruzione. E invece per uno dei rari gloriosi misteri italiani, il palazzo di giustizia milanese continua a produrre grandi e clamorose inchieste, dalla sanità  all’infiltrazione mafiosa nelle istituzioni. Quella sulla ’ndrangheta è avviata verso risultati devastanti. Fra un mese o due, ci assicura un magistrato, i voti comprati da Zambetti si ridurranno a un episodio minore, quasi pittoresco.
In questo quadro di disfacimento dell’impero, le ghignanti tattiche del Celeste appaiono espedienti disperati.
Un modo per non prendere atto che l’hanno mollato tutti, avversari e alleati, compagni di partito e compari di vacanze, perfino la Curia, dalla quale il nuovo arcivescovo Scola continua a lanciare appelli alla moralità  vagamente allusivi. Perfino gli amici di Comunione e Liberazione che sono alla ricerca di nuovi padrini, sempre svelti quelli. Se fosse un’altra storia e un’altra Milano, Formigoni troverebbe magari il coraggio di chiudere con un gesto comunque all’altezza di una grandiosa parabola. Dimettersi e cominciare a raccontare che cosa è stato davvero il sistema. Una delle canzoni più belle di Bob Dylan è dedicata alla figura di un Joker, dice: «La libertà  è dietro l’angolo, ma che cosa può venirtene di buono se la verità  è così lontana?».


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