by Sergio Segio | 12 Ottobre 2012 7:27
IL DRAMMA di diecimila bambini italiani contesi nei tribunali ha ormai un nome, “sindrome da alienazione parentale”. E se è vero che quello di Padova è un caso limite è altrettanto vero che il problema è entrato sia nella giurisprudenza sia nello studio delle nuove patologie. Accade ogni volta che, dopo una separazione, il piccolo affidato a un genitore (statisticamente la madre) finisce col rifiutarsi di frequentare l’altro genitore, il quale si rivolge al Tribunale, innescando così un’escalation. Il rifiuto dei figli può spingersi all’estremo, alla “cancellazione” del genitore rimasto fuori casa, fino ad assumere la gravità definitiva di una perdita, un vero e proprio lutto. Può tradursi in un reato (due anni fa la Cassazione ha sancito il diritto di un padre al risarcimento dei danni sanzionando così chi “incoraggia i figli a dimenticare, rimuovere, respingere l’altro genitore”)
ma sta cominciando a essere studiata soprattutto come patologia, per le persone e per le famiglie divise. «Il dramma per i bambini spesso non è tanto la separazione, che pure temono molto, quanto la necessità di soccorrere il genitore che crolla emotivamente e che nel suo crollo vorrebbe trascinarli con sé usando la loro assenza come arma contro l’ex coniuge», spiega Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e esperto di problemi dell’adolescenza. Il danno rischia di durare per tutta la vita: «La soluzione non può essere, evidentemente, quella di obbligare il bambino o il ragazzo a rispettare i weekend stabiliti dai giudici, ma una terapia che deve coinvolgere tutta la famiglia e rimettere le cose a posto, restituendo al figlio i due genitori ai quali ha diritto. Senza questo, quel figlio non riuscirà mai a emanciparsi dalla sua situazione, a crescere, ad avere amicizie, amori, interessi».
È d’accordo Tilde Giani Gallino, psicologa e studiosa dell’età evolutiva: «In molti casi il divorzio è il minore dei mali per i figli, ma condizione di essere ben gestito, mantenendo un rapporto di cooperazione tra i genitori». Che fare quando il bimbo dice “da papà non voglio andare”? «Se un figlio non vuole vedere il padre è evidente che esiste un problema
e la soluzione non può essere costringerlo ». Si possono ascoltare i bambini? «Si deve — risponde Gallino — e fin dalla più tenera età , dai 3 o 4 anni. Che cosa c’è dietro il loro rifiuto? Purtroppo, non tutti possono permettersi un terapeuta esperto in grado di accompagnarli lungo questo percorso. Invece la presenza di un
servizio terapeutico pubblico sarebbe essenziale». La vendetta attraverso i figli, insomma, non è solo un comportamento riprovevole, ma una vera e propria malattia sociale. «La legge sull’affido condiviso non ha risolto tutti i problemi — aggiunge Giulia Facchini, avvocato familiarista — Se da un lato è cresciuta l’idea che le
decisioni importanti per i figli vanno prese insieme, dall’altro non si è riusciti ad abbattere il numero di casi nei quali qualunque pretesto, dal ritardo nell’orario a un presunto problema di salute del bambino fino alla comparsa di un nuovo partner dell’ex marito o dell’ex moglie, si trasformano in una faida che va al di là di ogni
ragionevolezza». «Quello che è successo ieri — conclude Vincenzo Spadafora, Garante per l’infanzia e l’adolescenza — ripropone l’urgenza di una riforma della giustizia minorile. Ma soprattutto ci obbliga a ripensare alle strade per sostenere i genitori separati nei loro doveri verso i figli».
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