PROFONDO EST
La letteratura di viaggio è per sua natura “ totale”. Perché mette in movimento il cervello e il corpo, i sensi e l’anima. Paolo Rumiz, che ha sempre fatta sua questa postura, se possibile la accentua ancor di più in Trans Europa Express (già uscito in Francia e ora pubblicato da Feltrinelli), originale viaggio “in verticale” lungo le frontiere europee orientali: dal Mar Glaciale Artico fino a Odessa e oltre, verso Istanbul.
Aggiungendo a quanto detto una semplice equazione: più difficoltà si incontrano lungo il tragitto e maggiori sono le possibilità di fare incontri, dunque di raccontare. Ecco perché il bagaglio sarà ridotto all’osso. Mezzi privilegiati di spostamento saranno treni, autobus e battelli fluviali. Il ricovero notturno verrà offerto da pensioncine scalcagnate e il caso e la ventura prevarranno sugli appuntamenti prefissati: dunque nessun incontro con personaggi di prima fila e largo invece agli anonimi, o meglio ancora agli ultimi.
Qualcuno potrebbe individuare nell’atteggiamento di Rumiz un tratto eccessivamente romantico, passatista, ma i risultati si vedono dal libro: crivellato da immagini vivide e commoventi di paesaggi periferici e ignoti, di intatta bellezza o rovinosamente post- apocalittici. Abitati da uomini e donne inghiottiti dall’imbuto della storia (poveri contadini, profughi di ogni risma, pescatori di granchi giganti, modesti apicoltori, cacciatori di renne, fisarmonicisti d’antan), capaci sempre di offrire allo straniero tempo e calore umano; insomma, quanto la nostra insensata e incupita frenesia pare aver dimenticato.
La cartina geografica che Rumiz si è creato su misura non fa affidamento alle nazioni, con relative bandierine, ma affonda nelle antiche regioni frontaliere smembrate dai giochi geopolitici. E così è un succedersi ininterrotto di nomi dagli echi fiabeschi: Carelia, Livonia, Curlandia, Masuria, Volinia, Rutenia, Podolia.
Rumiz scende lentamente queste terre segnate immancabilmente dall’acqua. Annota con cura i cambiamenti del mondo vegetale: il passaggio dalle betulle ai tigli, «poi le querce, quindi le vigne, i platani e i fichi». Si eccita quando rintraccia antichi incroci etnici e religiosi. Gusta i sapori delle zuppe di verdura e della frutta di bosco. Si inalbera di fronte a ogni sopruso, a maggior ragione quando è figlio dell’imperturbabile burocrazia tecnocratica dell’Unione. E intanto, sempre procedendo a zig-zag, entra ed esce dalle frontiere europee spostate ora verso Est, spesso ancora più rigide e spietate di quelle del passato.
Quanto scorre sotto i miei occhi non è altro da noi, ripete di continuo Rumiz. Al contrario, questo è il vero centro dell’Europa, anche se ce lo siamo dimenticati, mentre affondiamo irrimediabilmente nella più «perfetta incoscienza». È qui che pulsa la vera, nuda vita. Non certo nelle nostre città tirate a lucido, asettiche e anodine.
Appena avverte sentore di turismo, rileccamenti e tour organizzati, il Nostro scappa a gambe levate. Gli succede a Vilnius, e non lo fa certo a cuor leggero, visto tutto quello che la “Gerusalemme del Nord” ha rappresentato nel passato. Meglio, infinitamente meglio Kaliningrad, enclave russa, «l’isola dei reclusi, circondata dalla fortezza Europa», ora trionfo di limousine, sommergibili e mafiosi: «terra di nessuno, spazio rarefatto dell’immaginazione, un fantastico non luogo come Trieste e Odessa, una città illusionistica e di intrighi, paragonabile alla Vienna postbellica, una scenografia ideale per i film di Humphrey Bogart».
E meglio ancora le esperienze inattese e casuali legate a inesplicabili deviazioni verso località sperdute, dove viene a contatto diretto con “l’anima slava”, indiscutibile cuore del suo itinerario. Basti, per tutti, l’incontro che ha luogo a Ludza, dove dentro una ex sinagoga trasformata nel ’41 dall’esercito nazista in stalla per cavalli, oggi vivono Rita e Volodia: una coppia di «anziani russi intrappolati in Lettonia dal gioco delle frontiere mobili, una storia inimmaginabile, di europei dimenticati, passeggeri di terza classe, nascosti come una vergogna nelle ultime vetture del lussuoso treno comunitario».
È sufficiente guardare il loro passaporto per capire che si è in presenza di due “non persone”, di due “alieni”. In compenso, con un cuore grande così.
Rita tira fuori le foto di una vecchia orchestra, composta per lo più da ebrei, ormai tutti morti. L’unico non ebreo, e l’unico ancora vivo, è Volodia, il marito, ex fisarmonicista. La donna ne parla mentre mette in tavola pane, burro, pesce affumicato e soprattutto un brandy di orzo fermentato e fatto in casa. È la svolta: il vecchio Volodia, dopo anni, riprende in mano lo strumento. La festa può avere luogo e sarà indimenticabile. Qui c’è tutto, scrive Rumiz: «la slavità , gli ebrei, lo sradicamento, il fascismo che torna, la bontà degli Ultimi. E questo cielo lettone che riassume il Nord e il Sud del mio continente».
L’alcol, consumato in abbondanza, sta facendo la sua parte. Al resto ci penseranno una breve passeggiata notturna lungo il lago, la luna piena, l’abbaiare dei cani e il gracidare sguaiato delle rane. «Ludza è il mio centro d’Europa», esulta Rumiz. Ora ne è certo: il viaggio, questo viaggio, ha trovato la sua ragione d’essere.
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