PENNAC “Dalle malattie ai piaceri ecco il mio diario sul corpo”

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PARIGI. Per scriverlo ci ha messo cinque anni, alternando i periodi di dubbio a quelli d’euforia. Una gestazione lenta e faticosa, in cui la struttura narrativa ha preso forma a poco a poco, tra ripensamenti e incertezze, appunti e ristesure, ma sempre sorretta da un’indubbia felicità  di scrittura.
Storia di un corpo (traduzione di Yasmina Melaouah, Feltrinelli, pagg. 352, euro 18, in libreria dal 24 ottobre), il nuovo sorprendente romanzo di Daniel Pennac, è stato un libro difficile da scrivere. Un libro originale e coraggioso, tutto incentrato sulla fisicità  del corpo e la forza delle sensazioni, il cui protagonista – da 12 a 87 anni – annota giorno dopo giorno tutto quello che, in un modo o nell’altro, riguarda il suo organismo. Il risultato è un intrigante romanzo in forma di diario, in cui coesistono il sesso e la malattia, il piacere e il dolore, lo sport e l’anatomia, lo stupore dell’adolescenza e la decadenza della vecchiaia. Un tragitto pieno di scoperte e paure, in cui il romanziere francese affronta con intelligenza, ironia e tenerezza le metamorfosi corporee dell’avventura umana.
«Il tema del corpo mi è sempre stato caro e già  in passato ho cercato di affrontarlo», spiega Pennac, che ha da poco terminato di scrivere una pièce teatrale, Le 6° Continent, in scena a Parigi dal 16 ottobre e dal 14 novembre allo Stabile di Torino. «Moltissimi anni fa, scrissi quasi trecento pagine sull’argomento che però poi bruciai del tutto insoddisfatto. Più tardi, nelle pagine di Signor Malaussène,
ho raccontato di un film sull’evoluzione di un corpo umano dalla nascita fino alla morte. Il corpo nella nostra società  è un luogo di silenzio. Non se ne parla. In passato alcuni scrittori hanno affrontato l’argomento, da Montaigne e Rabelais fino a Bataille, ma quasi sempre in maniera incidentale oppure in una prospettiva di radicale provocazione. Ecco perché ho provato a scrivere un romanzo tutto dedicato all’osservazione pacata della nostra realtà  corporea, cercando di rimettere in discussione quella che mi sembra una forma di rimozione collettiva».
Eppure viviamo in una società  dove il corpo mitizzato delle modelle e degli sportivi viene glorificato di continuo…
«Il corpo umano viene esposto dappertutto, dall’arte alla medicina, dallo sport alla pubblicità , dalla dietetica alla moda. Viviamo nel regno del corpo trionfante, che però è sempre un corpo sognato e idealizzato. Quella che viene proposta è solo una rappresentazione spettacolare che non ha nulla a che vedere con il corpo reale, nei confronti del quale invece mostriamo ancora lo stesso pudore che avevano i nostri antenati del XIX secolo. Dell’intimità  del corpo e delle sue manifestazioni non si parla mai, come pure evitiamo di affrontare in pubblico la relazione che ci lega alla materia del nostro organismo. Oggi parlare di feci, urina o vomito fa ancora scandalo. Non a caso, chi ne parla pubblicamente lo fa spesso per spirito di provocazione».
Ciò vale anche per lei?
«Non sono animato da alcuno spirito di provocazione né m’interessa infrangere tabù. Voglio rompere il muro di silenzio attorno a un’esperienza che riguarda tutti. Per dare la parola al corpo ho pensato a un diario fatto di sensazioni, in nome di un progetto diametralmente opposto all’idea del diario intimo che giustifica l’esistenza dal punto di vista della psicologia, dei sentimenti, dell’analisi. Il mio personaggio si concentra sulla materialità  del corpo e sulle sue manifestazioni, comprese quelle considerate meno nobili».
Perché tale scelta?
«Un giorno, quando era un bambino, il suo corpo l’ha sorpreso e spaventato, reagendo in modo incontrollato e scomposto a una situazione di paura. Da allora, si è riproposto di combattere in ogni modo la paura, affrontando le relazioni esistenti tra il corpo e la mente. Da qui la decisione di mettere il corpo al riparo dagli effetti dell’immaginazione, e la mente al riparo dalle manifestazioni impreviste del corpo. Il diario in cui descrive tutte le manifestazioni del suo corpo è lo strumento per ottenere tale risultato».
Un atteggiamento empirico che trasferisce sul piano fisico il motto socratico “conosci te stesso”. Ma conoscere il proprio corpo significa dominarne le paure?
«Conoscersi significa almeno limitare i danni. Il corpo infatti ci sorprende sempre, ci stupisce con le sue manifestazioni a cui non siamo mai preparati. Ciò vale per le malattie gravi come per le manifestazioni più banali, comprese quelle che sentiamo arrivare come uno starnuto o un orgasmo. Insomma, la relazione con il nostro corpo è sempre dominata dalla sorpresa. E la storia della nostra vita in fondo non è altro che la sequenza dei modi successivi con cui reagiamo a tali sorprese. L’estensore del diario non sempre capisce ciò che gli sta succedendo, ma almeno accetta di non capire, annullando in parte gli effetti della sorpresa. Alla fine
del libro, il controllo che sembra avere sulla sua agonia non nasce dal coraggio, ma dalla somma delle osservazioni che ha fatto su se stesso durante tutta la vita».
Lo scrittore che affronta queste tematiche finisce sempre per parlare del proprio corpo? La scrittura del corpo è necessariamente autobiografica?
«Nel momento in cui si sceglie il corpo come centro dell’esperienza letteraria, inevitabilmente si tende a fare appello alla propria esperienza. Soggetto e oggetto tendono a confondersi. Tuttavia, ci si rende conto che qui l’esperienza personale ha una portata più generale. Quando parlo dell’epistassi o dell’acufene, all’inizio penso che tali esperienze riguardino solo me, ma poi scopro che molte altre persone hanno avuto gli stessi problemi. Ciascuno però li
ha vissuti sempre da solo. Il corpo è un’esperienza di solitudine, dato che non condividiamo quasi mai con gli altri le sue sorprese. Se lo facessimo, scopriremmo che non c’è mai nulla di originale nelle manifestazioni del nostro organismo, anche se naturalmente ognuno vive ciò che gli capita come un avvenimento assolutamente originale».
È per questo che i lettori si sono riconosciuti in ciò che ha scritto?
«Probabilmente sì, dato che ho solo raccontato esperienze comuni. Diversi lettori mi hanno detto che ho saputo trovare parole su sensazioni o situazioni che loro conoscevano per esperienza, ma non sapevo esprimere. Sento in loro una specie di riconoscenza».
In Storia di un corpo il tema della morte è particolarmente presente. È una minaccia che sente avvicinarsi?
«È sorprendente che la sola esperienza che ci accomuna tutti, vale a dire la morte, sia anche quella che ci fa più paura. Io però non ne sono ossessionato. Fin quando non mi troverò con le spalle al muro, non credo che riuscirò a pensare ad essa come a qualcosa che mi riguardi. E quando dovrò affrontarla, non sono certo di riuscire a comportarmi eroicamente. La morte è per me soprattutto la scomparsa di persone care, di cui mi mancano i corpi e il suono della voce. In questo senso, è vero che ogni volta che perdiamo qualcuno d’importante, è come se morissimo un poco anche noi».


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