Passera: patto per la produttività
«UN GRANDE patto per la produttività ». È forse l’ultimo “sogno nel cassetto” del governo Monti. La campagna elettorale è già in pieno corso: condizionerà il finale della legislatura, e limiterà inevitabilmente il campo d’azione dell’esecutivo. Ma di cose da fare, oltre al consolidamento dei conti pubblici che dovrà consentireall’Italiadiraggiungereilpareggiostrutturale di bilancio nel 2013, ce ne sono ancora. Corrado Passera, di rientro da un dibattito nella basilica di Assisi con il cardinal Gianfranco Ravasi, ne è convinto. E il ministro dello Sviluppo economico fissa l’obiettivo principale dell’agenda d’autunno.
«UN ACCORDO tra governo, imprese e sindacati, per riformare la contrattazione e puntarla sul rilancio della competitività del Sistema-Italia». Il momento è propizio, quasi obbligato. Il piatto della crescita è miseramente vuoto. Quello dello sviluppo, nonostante i tanti annunci di questi mesi, piange. Negli Anni Settanta, come ricorda il Cnel, il nostro Paese guidava la classifica dell’Ocse come output per ora lavorata del settore manifatturiero, con una crescita del 6,5%. Nella prima decade degli Anni Duemila siamo crollati all’ultimo posto, con un aumento della produttività dello 0,4% in media d’anno, contro il 3% della Gran Bretagna, il 2,8% dell’Olanda, il 2,5% della Francia, l’1,8% della Germania, l’1,5% della Spagna. Non solo. Secondo Jp Morgan, tra il 2008 e il 2009 l’Italia è l’unico Paese, tra i maledetti Piigs, ad aver registrato un aumento del costo del lavoro nominale per unità di prodotto, mentre Portogallo, Irlanda, Gracia e Spagna hanno proseguito sulla via della deflazione salariale. Con questi numeri non si va lontano. Per questo Monti cerca l’affondo, e rilancia sul patto per la produttività .
Secondo lo schema del ministro per lo Sviluppo, il governo non si limiterà a fare solo da arbitro del negoziato, ma metterà sul piatto qualcosa. «La detassazione del salario di produttività ». Le imprese e i sindacati, da parte loro, dovranno raggiungere un’intesa che ruota intorno a un diverso assetto della contrattazione. Quella di secondo livello, cioè il contratto aziendale, diventa preponderante, ed assorbe la quasi totalità degli aumenti salariali (come già prevedevano gli accordi di luglio e settembre 2011). Quella di primo livello, cioè il contratto nazionale, resta per la parte normativa, ovviamente, e anche per una minima parte economica, che deve coprire
l’inflazione attraverso una revisione del meccanismo di adeguamento automatico in base alle previsioni sull’andamento dell’indice dei prezzi armonizzato a livello europeo (il cosiddetto Ipca). Ma anche per questa parte residua di salario, secondo Passera, «dovrebbe scattare un sistema di aggancio automatico agli incrementi di produttività ». Come congegnarlo è oggetto della trattativa.
Si gioca tutto nelle prossime due settimane. Da oggi fino a giovedì prossimo la Confindustria dovrà discutere e mettere a punto la sua piattaforma, insieme alle altre associazioni di categoria di Rete Impresa. E dalla settimana
successiva ripartirà il tavolo con Cgil, Cisl e Uil. Non sarà facile. Da una parte, il leader degli industriali Giorgio Squinzi non risparmia le critiche a Monti, e ha già bollato come «un aperitivo» il
decreto legge sullo sviluppo approvato giovedì scorso dal Consiglio dei Mini-stri: la Confindustria continua a cavalcare l’idea di un aumento delle ore lavorate, trascurando il fatto che, senza una ripresa apprezzabile dei consumi e un rilancio consistente degli investimenti, il problema non è “quanto” si lavora ma “come” si produce.
Dall’altra parte, il segretario della Cgil Susanna Camusso non intende fare più sconti al governo, ed anzi reclama una rapida liquidazione della parentesi “tecnica” a Palazzo Chigi: e su questa trincea, con la Cisl di Bonanni spiazzata a metà del guado, si è attestata persino la Uil di Angeletti, immemore delle tante cambiali in bianco firmate a suo tempo al
governo Berlusconi.
Per questo, nelle condizioni attuali, secondo Passera arrivare a un accordo nelle prossime due settimane «sarebbe un miracolo ». Ma vale la pena di tentare. Con la congiuntura disastrosa in
corso, si profila altrimenti un duplice rischio. Che la via “produttivistica” alla fuoriuscita dalla crisi, secondo il motto squinziano del “lavorare di più”, si riveli velleitaria (tanto più in una fase in cui la domanda è piatta). E che alla fine prevalga altrimenti la “via bassa” al recupero di competitività , cioè una tendenza inerziale delle imprese a tagliare comunque il costo del lavoro (con la conseguente, inevitabile erosione dei salari reali e la progressiva, ulteriore riduzione delle coperture del Welfare). E’ quello che purtroppo sta già accadendo in alcuni settori, a partire dal sistema bancario.
Il governo, che finora della triade montiana iniziale ha centrato solo il target del rigore e non quello della crescita e dell’equità , non vuole trascorrere in
surplace i pochi mesi che separano il Paese dalle elezioni. Passera ha in programma il nuovo Piano energetico nazionale, che dovrebbe vedere la luce entro novembre, e l’asta delle frequenze, che «si farà entro dicembre». Nei prossimi giorni arriveranno finalmente le indicazioni dell’Agcom. Passera sa bene che c’è stato un ritardo di due mesi, ma lo spiega con il passaggio di consegne tra i vecchi e i nuovi vertici dell’Autority. E ora, assicura, si va avanti senza impedimenti: Sullo sfondo, restano altre due grandi questioni. La prima è l’eventuale richiesta dello scudo salva-spread. Al momento tutto è fermo, in attesa di capire le scelte della Spagna. Ma il premier e i suoi ministri non hanno cambiato idea. Secondo Passera, il problema di un differenziale dei tassi sui nostri Btp che non cala nasce dal dubbio dei mercati su cosa accadrà “dopo Monti”, e non certo su come evolverà la tenuta dei nostri “fondamentali” di bilancio. Vittorio Grilli è ancora più netto: «Per noi non c’è nulla di nuovo: andiamo avanti per la nostra strada, e non chiediamo alcun aiuto perché non ne abbiamo bisogno», dice il ministro in partenza per il vertice dell’Eurogruppo che si riunisce oggi a Bruxelles.
La seconda questione è l’eventuale avvio di un percorso di riduzione della pressione fiscale. Anche dentro il governo, il dibattito è in pieno corso. Ci sono ministri che premono per “risarcire” i contribuenti onesti con i proventi dell’evasione. Ma Monti non si piega. «Entro questa legislatura non possiamo permettercelo». E Grilli è sulla stessa linea: «Non ci sono le condizioni », ripete. Anche l’ipotesi di dirottare su qualche sgravio in busta paga i 6,5 miliardi già previsti per evitare l’aumento di due punti delle aliquote Iva viene considerata impercorribile. «Non servirebbe a nulla — sostiene il ministro del Tesoro — se
lasciassimo riaumentare l’Iva introdurremmo una misura regressiva e l’eventuale sgravio in busta paga non porterebbe benefici apprezzabili per i contribuenti: spalmando quelle risorse su una platea troppo vasta, ne verrebbe fuori una “mancia” da pochi spiccioli, che certo non servirebbe a sostenere i consumi delle famiglie». Dunque, si va avanti con il percorso già segnato. Ridurre le tasse, rimodulare l’incidenza dell’imposta personale sul reddito, non è nell’orizzonte del governo Monti. Se ne occuperà il suo successore. Cioè lo stesso Monti, secondo l’auspicio di molti.
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