Pace: una guerra da vincere
Le due delegazioni sono entrate insieme e si sono sedute allo stesso tavolo, senza scambiarsi strette di mano e separate dai rappresentanti dei due paesi «garanti» delle trattative di pace: la norvegese Tone Allers, capo dell’ufficio pace e riconciliazione del ministero degli esteri (che ha dato il benvenuto incitando le parti ad «avanzare e continuare in buona fede» nel loro «impegno per la pace») e il cubano Carlos Fernà¡ndez de Cossio, direttore dell’ufficio America del nord del ministero degli esteri (che ha ricordato «lo storico impegno dell’Avana di raggiungere l’obiettivo della pace»). Oltre ai «garanti» Norvegia e Cuba, altri due paesi latino-americani, uno di destra e uno di sinistra – Cile e Venezuela – fungono e fungeranno da «accompagnatori» di un processo che si annuncia presumibilmente lungo (forse un anno, in tempo per l’avvio della campagna presidenziale del 2014 in Colombia) e sicuramente difficilissimo.
Quella di ieri era «la seconda fase» e l’unico momento pubblico di un negoziato bilaterale avviato segretamente nel febbraio scorso all’Avana (ciò che ha riconfermato lo straordinario ruolo che Cuba conserva in America latina) e reso pubblico da Santos in agosto. Questa «seconda fase» continuerà (ma all’insegna della riservatezza) all’Avana il 5 novembre prossimo, quando le due delegazioni definiranno «i preparativi» per la discussione sul punto non a caso considerato il numero uno dei 5 in agenda, quello sullo «sviluppo agrario integrale», che sarà abbordato a partire dal 15 novembre. La «terza e ultima fase», secondo quanto affermato ieri nel «comunicato congiunto» concordato dalle due parti, «inizierà con la firma di un accordo finale» che «metta fine al conflitto armato».
Ci si arriverà ? Auspicabile che sì, perché la guerra civile strisciante che dura ormai da quasi mezzo secolo, sul piano militare non ha potuto e presumibilmente non potrebbe essere vinta. Sia il governo di destra di Santos sia le Farc (ma ai negoziati potrebbe aggiungersi col tempo anche l’altro e minore gruppo guerrigliero, l’Eln) hanno dovuto rendersi conto che l’unica via d’uscita è una soluzione negoziata. Un esito verso cui spingono anche i rispettivi campi di riferimento delle due parti: gli Stati uniti di Obama da un lato e dall’altro Cuba, Venezuela (che in caso di successo vedrebbero confermato e accresciuto il loro peso internazionale) e il resto dell’America latina.
Dopo la lettura della dichiarazione congiunta, i capi delle due delegazioni, Humberto de la Calle e Ivà¡n Mà¡rquez, hanno dato una conferenza stampa, separatamente.
De la Calle ha ricordato che la fine del conflitto armato di per se stessa «non sarà la pace ma solo l’anticamera della pace» che sarà raggiunta solo quando «si sarà andati a fondo nella trasformazione della società ». Ha annunciato che le difficoltà saranno «enormi» ma che questo «è un momento di speranza» con «una certa dose di ottimismo seppure un ottimismo moderato». Poi è toccato a Ivà¡n Mà¡rquez che ha esordito con il richiamo al mitico Macondo dei Cent’anni di solitudine di Garcàa Mà¡rquez. «Siamo venuti per cercare una pace con giustizia sociale in Colombia», per «raggiungere una pace definitiva ma che implichi riforme radicali che fondano insieme democrazia, giustizia e vera libertà ». Ha ribadito che le Farc, che – ha detto – «non sono affatto sconfitte», «vogliono sinceramente la pace» ma la pace non significa solo «l’abbandono delle armi» bensì «la trasformazione della struttura dello stato», «noi non siamo la causa ma la risposta alla violenza dello stato» e quanto alle diffuse richieste che i componenti delle Farc rispondano dei crimini contro i diritti umani commessi duranta la guerra, ha concluso che è lo stato colombiano, che ha portato la Colombia a essere «il terzo paese più diseguale del mondo» e che «assassina con i suoi sicari e con le sue politiche economiche», a dover «rispondere davanti alla giustizia per i suoi crimini di lesa umanità ».
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