On the road con i pendolari di Obama

by Sergio Segio | 7 Ottobre 2012 16:56

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Sono i volontari della campagna di Obama che si preparano ad una giornata di canvassing, le ronde porta a porta che sono una componente essenziale della strategia elettorale nelle ultime settimane di campagna. Quando arrivano anche gli ultimi della lista che hanno aderito all’appello diramato in rete, il coordinatore divide i volontari in gruppi di due o tre e distribuisce le cartine che indicano ad ogni squadra la zona di competenza. Ogni mappa descrive un’area di una ventina di isolati perlopiù composti da villette a schiera di nuova fabbricazione, quelle che durante il boom immobiliare sono spuntate come funghi alla periferia di…Las Vegas. Si, perché questo venerdì mattina, come in ognuno dei weekend che precedono il voto, i volontari californiani saliranno in macchina per fare i 500 km che separano Los Angeles dalla scintillante capitale del gioco d’azzardo nel deserto del Nevada. Verso mezzogiorno attraverseranno il fiume Colorado che segna il confine della California ed entreranno in uno dei nove stati che sceglieranno davvero il prossimo presidente americano. Nove stati, non cinquanta. Perché per effetto del sistema elettorale le grandi metropoli liberal delle coste – New York, Boston, Seattle, San Francisco – sono praticamente insignificanti nel determinare l’esito dell’elezione. Così come anche i grandi stati dell’America profonda, le roccaforti repubblicane del Texas, il blocco «rosso» del sudEst e quello altrettanto conservatore arroccato sulle montagne rocciose, dal Montana all’Arizona. Nel sistema americano ogni stato esprime un numero di grandi elettori che assieme compongono un «collegio elettorale» di 538 votanti. Il candidato che ottiene la maggioranza di questi voti – cioè almeno 270 preferenze – diventa presidente Gli stati selezionano gli elettori ( electoral votes ) con un sistema maggioritario secco di modo che ognuno produrrà  un blocco unico, o democratico o repubblicano. È la caratteristica per cui è possibile vincere le elezioni pur senza ottenere la maggioranza del voto popolare, come accadde per George Bush nel 2004 (è tecnicamente possibile anche uno scenario di parità  sui 269 delegati ciascuno, nel qual caso l’elezione viene determinata da un voto della camera, dove la maggioranza attuale è detenuta dai repubblicani). In 41 stati dell’unione i giochi sono fatti: le maggioranze ampie e scontate, l’esito ampiamente prevedibile. La California, come lo stato di New York per esempio, sono democratici da generazioni per via della maggioranza liberal dei ceti urbani e la radicata tradizione sindacale.Gli stati dell’interno esprimono invece la schiacciante maggioranza conservatrice della cultura ruIl vincitore prende tutto rale, tradizionalista e religiosa. I due stati «non contigui», le Hawaii e l’Alaska sono di solida fede rispettivamente democratica e repubblicana. In solo nove stati su 50 l’esito è ancora in forse, i cosiddetti frontline states , i distretti in «prima linea» dove il risultato favorendo Romney o Obama influenzerà  l’esito finale dell’elezione. Seguire la campagna dalla California, lo stato à¡ncora della «left coast», significa assistere ad una partita che si deciderà  in trasferta. Nei mesi di campagna i candidati da queste parti si sono fatti vedere un paio di volte appena e unicamente per rimpinguare i forzieri elettorali con fund-raising a base di celebrità  hollywoodiane o magnati di Silicon Valley. Malgrado il record di milioni di dollari versati a favore dei due partiti per saturare l’etere di spot elettorali, un telespettatore californiano difficilmente inciamperà  su una pubblicità  politica. Ohio, Florida e altri 7 stati chiave Il fuoco incrociato dei «negative ads» è tutto concentrato sulle emittenti di Ohio, Florida, Virginia, Iowa, Wisconsin, Minnesota, Colorado, New Mexico e, appunto, il Nevada dove sono dirette le carovane proObama partite da L.A. (un analogo convoglio questo fine settimana ha lasciato San Francisco alla volta di Reno, nel nord dello stato del gioco d’azzardo). I volontari sanno bene che nessuno sforzo potrà  modificare significativamente gli equilibri politici in California: Obama vincerà  con il 60% dei voti circa e otterrà  così tutti e 55 i voti elettoriali del Golden State. L’unico modo in cui un californiano può influire sulla scelta del prossimo presidente quindi è “emigrare” il che spiega la campagna «in trasferta» dei volontari che si danno appuntamento davanti al quartier generale di Obama ad Henderson, un sobborgo di Las Vegas, pronti a consolidare il supporto del presidente (o ad arginare le defezioni data la batosta del dibattito) e in ogni caso a invitare ciascun potenziale elettore a iscriversi alle liste e recarsi ai seggi. Si chiama «get out the vote » ed è la spinta cruciale che caratterizza la fase finale di ogni campagna, particolarmente importante per Obama per cui uno dei pericoli maggiori quest’anno è costituito dal potenziale astensionismo, specialmente fra quei gruppi di giovani che quattro anni fa erano affluiti massicciamente alle urne ma che ora danno preoccupanti segnali della consueta ignavia. È il cosiddetto enthusiasm gap , la scarsa motivazione che costituisce l’incognita non rilevabile dai sondaggi, cioè se la preferenza dichiarata si tradurrà  poi in un voto effettivo. Per questo è così cruciale il lavoro di «piazzisti» svolto in queste periferie replicanti dove vivono perlopiù pensionati e lavoratori dei casinò. La mutazione della città  dei casinò Il Nevada tende storicamente a votare repubblicano o almeno così è stato fin quando ha rispecchiato il tradizionale profilo demografico dell’Ovest: popolazione rurale di scarsa densità  e valori conservatori. Ma il boom di Las Vegas durato oltre dieci anni fino ad appena prima del crac, ha importato in questa terra di allevatori bianchi una popolazione multietnica di lavoratori urbani, una crescita che ha alterato gli equilibri a favore di neri e latinos che tradizionalmente favoriscono il partito democratico. La trasformazione della «città  del peccato» in divertimentificio di massa inoltre ha fatto di Las Vegas una roccaforte sindacale che si è sostituita ai centri manifatturieri della «Rust Belt » deindustrializzata, consolidando la base politica ed economica dei democratici. Determinante nella vittoria di Obama qui quattro anni fa, è stata la capillare mobilitazione del potente sindacato degli alberghieri ispanici (nota nello stato come la «culinary» ) impiegati nei mega hotel-casinò. Il Nevada insomma è emblematico di quelle faglie demografiche e «culturali» che riflettono le tendenze sociali del paese e lungo le quali si decide la politica dell’ultima superpotenza del pianeta. Una curiosa dinamica regionale che ingigantisce l’importanza di una manciata di elettori in specifici settori di una manciata di stati. La forza enorme delle minoranze In Florida, forse il più cruciale degli «stati-trincea», la dicotomia, se possibile, è ancora più idiosincratica, una gara fra anziani pensionati, con una forte componente di ebrei provenienti dall’East Coast e coriacei Cubani anticastristi, ragione per cui uno dei più celebri spot virali pro-Obama è stato quello della comica Sarah Silverman che invitava la propria nonna a votare per il presidente «anche se è negro». Dal canto loro i cubani, e l’argomento anacronistico con cui esercitano monomaniacalmente da 50 anni una influenza grottescamente sproporzionata nella politica presidenziale americana, più che rispetto ai propri effettivi numeri sono influenti proprio grazie alla loro ubicazione strategica nella mappa elettorale. Domenica sera, mentre il tramonto tinge di fuoco le montagne dietro i casinò, i frontalieri californiani del voto impacchettano i cartelli per Obama nei cofani delle macchine e riprendono la via del rientro sulla Interstate 15, sperando di aver fatto abbastanza oggi per la causa. Una volta tornati a casa, potranno solo sperare che i loro concittadini in Nevada, Florida, Ohio e una manciata di altri stati eleggano il loro candidato.

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