Odissea birmana a Madison street

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NEW YORK. A Brooklyn, nel quartiere di Bedford Stuyvesant, c’è una casa-monastero dove dal 2010 dimorano tre profughi birmani: U Agga Nyana, U Pyi Nya Zawta e Cho Naing.

U Agga ha trentadue anni, è originario di un villaggio della Birmania centrale ed è monaco buddista. Entrò nel monastero quando aveva dieci anni. A quei tempi c’era il coprifuoco a causa delle rivolte dell’8-8-1988 e la popolazione fu lasciata per quasi 3 anni senza scuole. Il monastero era un’opportunità  per istruire i figli.
U Agga ricorda il primo giorno di scuola e soprattutto le partite di calcetto quando i gol si segnavano al grido di «democrazia!».
Nel 2007 a causa dell’aumento del costo della benzina cominciarono nuove rivolte e i monaci buddisti si affiancarono agli studenti e al popolo. La loro colorata presenza creò quella che è passata alla storia come la rivoluzione zafferano. Il 9 settembre venne fondato L’«All Burma Monk Alliance» che chiese al governo di: 1.ridurre il prezzo della benzina; 2.rilasciare i prigionieri politici; 3.iniziare un dialogo con le forze democratiche occidentali; 4.scusarsi pubblicamente con i monaci per le brutalità  che questi avevano subito.
Il governo avrebbe dovuto rispondere entro il 18 settembre o un Pattanikkujjana, – un boicottaggio spirituale – sarebbe entrato in effetto, per cui offerte e donazioni da parte dei militari e delle loro famiglie non sarebbero state accettate dai monaci e ogni cerimonia religiosa gli sarebbe stata negata.
Il governo non rispose e il 18 settembre le rivolte ripresero.
U Agga partecipò alla rivoluzione del 2007 e da lì cominciò l’odissea che l’ha portato a Brooklyn. In quei mesi, ricorda U Agga, il governo impose il coprifuoco, nonché il divieto di associazione. Le incursioni brutali della polizia militare all’interno dei monasteri erano frequenti, e i più fortunati potevano solo scappare.
U Agga cercò dapprima di rifugiarsi in altri monasteri, poi addirittura sugli alberi o in abitazioni, ma consapevole del rischio che portava a chi lo ospitava decise di fuggire in Tailandia.
U Agga, la traversata in zattera
Addio Rangoon: U Agga attraversa il fiume Moei in zattera per entrare a Mae Sod. Ma anche la Tailandia gli garantisce ben poco. Lo stato di profugo è fittizio e infatti nel monastero a cui chiede ospitalità  vi potrà  rimanere solo per tre giorni. Il campo profughi è un’opzione ma all’ultimo momento riesce a trasferirsi per sei settimane in una casa rifugio che il movimento democratico birmano gestisce per i monaci e gli studenti che hanno lasciato la Birmania. Lì incontra altri monaci. Vivono però rintanati: nessuno di loro ha i documenti e la polizia tailandese arresterebbe gli immigrati clandestini e li deporterebbe in Birmania. Questo significherebbe la tortura.
Nel gennaio del 2008 una delegazione delle Nazioni Unite che li intercetta a Mae Sod, offre loro la possibilità  di trasferimento negli Stati Uniti. U Agga accetta, ma la tubercolosi lo trattiene e viene mandato in cura in un monastero in cui rimarrà  per due mesi. Nel marzo del 2008 U Agga lascia la calda Tailandia e arriva finalmente a Buffalo, una delle città  più fredde d’America.
Affronta la sua prima neve in sandali e saio monacale ma più tardi, nel monastero di Utica si convertirà  all’uso degli stivali e della slitta.
Le comunicazioni con la sua famiglia sono sporadiche. Il servizio postale non serve il suo remoto villaggio e la famiglia non ha né telefono né computer. Talvolta manda lettere e fotografie attraverso amici viaggiatori che vanno in Birmania e che si offrono di visitare la sua famiglia.
U Agga finisce di parlare di sé e si offre traduttore di U Pyi Nya Zawta, con cui abita a Madison Street. Con tono calmo, sguardo vigile sotto le palpebre lievemente abbassate, U Pyi Nya ci risponde nella sua lingua madre. Ha cinquantadue anni, anche lui monaco buddista dall’età  di venti. Ha viaggiato di monastero in monastero, in cinque città  diverse, per apprendere le scritture sanscrite, ma sdegnato dalla dittatura militare che ha piegato il paese fin dal 1948, affianca la propria opera spirituale a quella politica.
È di Nadmouk, e ci tiene a precisare che la sua città  insorse vittoriosa contro la corona inglese nel 1948. È stato organizzatore del Sindacato dell’Ordine dei Monaci della Birmania, ed è figura di primo piano durante la «Rivolta 8888», la rivoluzione nazionale del 8 agosto 1988.
Nel 1990, in occasione di una cerimonia per l’anniversario degli scontri del 1988, il governo manda i soldati a distruggere i monasteri all’interno dei quali si officiano le cerimonie. Molti monaci sono picchiati e i monasteri distrutti. U Pyi Nya scappa ma viene arrestato nel dicembre di quell’anno a Mandalay. Tre anni di duro carcere, di cui uno in isolamento, per aver aver decretato la scomunica dei generali dell’esercito birmano.
Le prigioni di U Pyi Nya
Nell’ottobre del 1996, quando insorge nuovamente la rivolta studentesca, U Pyi Nya si unisce a loro. Viene di nuovo arrestato e torturato per sei giorni consecutivi nel centro di detenzione insieme ad altri prigionieri politici. Legato a una sedia, bendato, percosso, preso a calci. Trascorre le giornate in una piccola cella, quasi al buio, con un bicchiere d’acqua e una scodella di riso. La notte iniziano gli interrogatori. Ma U Pyi Nya tace e per assenza di prove, è scarcerato.
Nel 1997, U Pyi Nya ricomincia l’attività  politica e nel gennaio del 1998 viene di nuovo arrestato insieme ad altri cinquantadue attivisti. U Pyi Nya è condannato a sette anni di prigione. Verrà  rilasciato nel 2004.
«La prima volta è stato più terribile. Il cibo era scarso e immangiabile, le celle minuscole e affollate da criminali comuni, avevamo solo 15 minuti di intervallo, inoltre un anno d’isolamento. Le visite dei parenti erano ridotte a quindici minuti alla settimana».
La seconda detenzione è andata meglio; i monaci erano incarcerati insieme ad altri prigionieri politici, si potevano scrivere lettere, anche se poi probabilmente venivano censurate.
Dove ha trovato la forza?
«Un forte desiderio di giustizia e libertà . Non l’ho fatto per me stesso ma per il paese. Per me era facile combattere: non avevo investimenti in affari, né moglie o figli, perdevo meno. Solo me stesso. Ero un uomo libero».
E la pratica? «Durante la detenzione cercai di aiutare altri prigionieri a diminuire la sofferenza attraverso la meditazione. Alcuni prigionieri dipendenti dall’alcol, per esempio, grazie alla meditazione hanno smesso di bere. Nel 1998 ai prigionieri era vietato insegnare la meditazione. Ho dovuto chiedere il permesso per poterlo fare e non sempre lo ottenevo. Oggi è diverso, dal 2005 le cose sono cambiate, la pratica del buddismo è entrata nel carcere».
Due orecchini, un taglio di capelli alla moda e una lattina di Cocacola in mano, Cho Naing, il terzo uomo della casa-monastero di Bed Stuy, è in giardino a fumare.
Cho Naing, da monaco a leader
Cho Naing è stato monaco e leader politico fino allo scorso gennaio quando il suo nome era U Gaw Sita.
Nel documentario «Burma VJ, Reporting from a Closed Country» di Anders Ostergaard, c’è una lunga sequenza nella quale il nostro grida nel megafono:
«Noi monaci non stiamo lottando per i nostri interessi ma per quelli del popolo. Vi esorto a unirvi a noi. Vi unirete? Migliorate le vite della gente».
Anche la sua storia è rocambolesca. Nelle settimane successive alla rivoluzione gli è impossibile ottenere asilo e assistenza. Per fuggire si disfa del saio e si nasconde per strade e per boschi. Per un’intera notte attraversa da solo la giungla. Vuole infilarsi su di un pullman per raggiungere la Tailandia ma sui mezzi di trasporto pubblici, i controlli della polizia sono frequentissimi. Tenta la sua ultima carta. Sa che le uniche persone a cui non vengono richiesti i documenti, sono il controllore dei biglietti e l’autista. Si confida con quest’ultimo: «non solo non posso pagarti la tratta, ma ti chiedo di farmi staccare i biglietti». La polizia che sale sul pullman si lamenta con l’autista dell’inettitudine del controllore, l’autista spiega che bisogna aver pazienza, lo ha appena assunto, imparerà . Sfuggito così alla polizia birmana, U Gaw Sita, è prontamente arrestato in Tailandia. A nulla vale chiedere l’asilo politico, lo avvertono che verrà  rimandato in Birmania dopo 48 ore. Immaginando di andare verso la tortura e la morte passa i due giorni a piangere in cella.
Ma il mormorio di «monaco-birmano-arrivato-clandestino-ora-detenuto-in-procinto -di-essere-reimpatriato» si è diffusa e ha raggiunto U Agga e compagni. I nostri cominciano una lotta contro il tempo per raccogliere del denaro e qualche minuto prima delle cinque del pomeriggio, si presentano al centro di detenzione e corrompono con successo la polizia. U Gaw Sita si unisce al gruppo di U Agga.
Arrivato qui in America nel 2008, nel gennaio scorso si spoglia dell’abito monacale e riprende il suo nome di famiglia, Cho Naing: tra i tremila profughi ad Utica ha incontrato una donna ed è nato l’amore.
Proprio mentre scrivo l’articolo, è in viaggio verso di lei. Ha già  trovato lavoro a 370 km da New York, come chef di sushi in un ristorante di Ithaca.
Potremmo dire che tutto è bene quel che finisce bene, soprattutto considerando che la Birmania sembra aver intrapreso un processo di democratizzazione e nelle elezioni dell’aprile di quest’anno, Aung San Suu Kyi, Leader della Lega Nazionale della Democrazia, premio nobel della pace nel 1991, dopo ventitré anni di continua oppressione da parte del regime militare, di cui quindici agli arresti domiciliari, è stata eletta in parlamento.
Apprendiamo invece che i monaci scendono nuovamente in piazza, ma questa volta in sostegno del presidente Thein Sein, deciso a deportare dalla Birmania i Rohingya, un’etnia mussulmana che vive nel paese, a cui non è concesso il diritto alla cittadinanza.
«In sostegno del razzismo?», chiedo indignata a U Pyi Nya.
«In sostegno della legalità  – mi risponde – i Rohingya sono illegali».
Le divisioni razziste e religiose
È ovvio che la storia di un popolo di quasi un milione di persone che vive da centinaia di anni in Birmania non possa risolversi nella parola «illegalità » e del resto, la sua apparizione non è la conseguenza di un esodo recente sebbene più di una voce intellettuale birmana intenderebbe provare il contrario. Inevitabile considerare la possibilità  che all’indomani dello sgretolamento di dittature di ferro che hanno per decenni raggelato le voci individuali – comprese quelle meschine del razzismo e della divisione religiosa – siano riemerse vecchie tensioni civili. E infatti, dopo l’indipendenza del 1948, le varie minoranze del paese fecero subito la richiesta di uno Stato Federale implementandola con una guerriglia cui il governo rispose con una violenta repressione. Nel contempo però, questi ha sempre anche usato i conflitti intestini delle diverse etnie nel paese a suo vantaggio e, in questo caso, le ha fomentate rifiutando di utilizzare le vie della legalità . In giugno, lo stupro e l’omicidio di una ragazzina buddista nello stato Rakhine da parte di uomini musulmani dell’etnia Rohingya ha provocato nel paese manifestazioni del popolo e la risposta estrema del governo: la deportazione nel vicino Bangladesh, come già  all’inizio degli anni ’90, della popolazione Rohingya. Stupisce e amareggia che dopo 64 anni di dittatura militare in cui i Birmani di ogni etnia, hanno perso dignità  e vite, dinanzi a un «nuovo» ipocrita governo ancora lontano dalla democrazia, si taccia su quest’esodo. La stessa Aung San Suu Kyi si pronuncia poco al riguardo, forse per non compromettere la sua posizione politica e personale ancora a rischio. Come a dire: non è «gente nostra», perché inasprire relazioni già  difficili con un governo inaffidabile?
Non la pensa così U Gambira, uno dei monaci più in vista della rivoluzione zafferano, tra i sei fondatori dell’«All Burma Monk Alliance» e suo portavoce, condannato a 63 anni di reclusione, torturato e infine rilasciato all’inizio di quest’anno, in seguito a fortissime pressioni internazionali. Non ha mai voluto lasciare il paese, neanche temporaneamente, per rimettersi dalle terribili condizioni di salute in cui versa dopo le torture subite durante i quattro anni di detenzione in carcere. Ha paura che non gli permetterebbero di rientrare in birmania. In aprile ha lasciato però il monachesimo dopo che ben tre monasteri gli hanno negato asilo per paura delle violente ritorsioni da parte delle autorità . U Gambira è tornato a casa dalla sua famiglia.
Sull’adesione dei monaci buddisti alla violenta soluzione del governo contro i Rohingya, scrive lo scorso 29 Agosto in una lettera pubblicata su www.thebestfriend.org: «Non è cambiato nulla a Myanmar… La neo dittatura militare ha sfruttato e favorito…. il conflitto religioso Rakhine-Rohingya, per i propri scopi…. Si tratta di una strategia molto semplice ed efficace per mantenere le persone separate… È successo più volte in passato… e la dittatura militare ne ha beneficiato».
E ai monaci, ricorda: «Abbiamo già  in precedenza propagato il fuoco della verità  nel 2007 davanti all’intero mondo. Devo spiegare in dettaglio il significato di parole buddiste come virtù… benevolenza verso tutti gli esseri umani senza discriminazione, pace?».
Il filo di perle
Nelle guerre fra i poveri, questi perdono sempre, da entrambe le parti. E certo, chi l’ha iniziata, non la combatte la guerra ma la vince, sull’una e sull’altra parte, e si assicura il bottino. Uno che non è sempre evidente. Nel caso della Birmania, un paese del quarto mondo, questo è visibile sulla mappa, quando osservando i confini geografici del paese si applica un po’ di geometria spiccia alla meta politica. La Birmania serve all’America per assicurarsi il controllo della navigazione dal Golfo Persico fino al Mare del Sud Della Cina attraverso lo Stretto di Malacca, che per il momento ce l’ha la Cina: la Birmania fa parte del «filo di perle» della strategia di espansione economico militare di Pechino. Sarà  per questo che d’improvviso Washington è così attento alla democratizzazione di un paese tanto lontano? Così sensibile ai suoi diritti civili? Che anche la rivoluzione zafferano sia stata orchestrata dall’elite dei globalisti per mezzo di servizi segreti-e-mediatici, come è per molti, una certezza? Magari è questo che non ci siamo ancora spiegati l’un l’altro in dettaglio?


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