Non dimenticare Karachi
L’inchiesta ufficiale sulla tragedia di quell’11 settembre ha tempi lunghi, ma se le cause dell’incendio non sono state chiarite formalmente è già chiarissimo che a provocare un bilancio umano così alto sono le condizioni dello stabilimento: a cominciare dal fatto che le finestre dei primi piani erano chiuse da sbarre, le porte pure sbarrate salvo una, la fabbrica era sovraffollata e non c’erano attrezzature per spegnere le fiamme alimentate dai ritagli di stoffa e materiali sintetici sparsi.
La campagna «Abiti puliti», parte della rete internazionale Clean Clothes Campaign, ora lancia un appello a non dimenticare le vittime di quell’incendio: e il modo migliore è chiedere conto alle aziende europee committenti di quella fabbrica. La Ali Enterprises produceva jeans per una catena di magazzino a basso costo in Germania, Kik, che ha oltre 3.000 punti vendita in otto paesi europei. Tirata in ballo, la Kik si è difesa dicendo che sì, si preoccupava delle condizioni di lavoro nella fabbrica pakistana: tanto che dal 2006 aveva commissionato regolari ispezioni a una società di nome Ul Responsible Sourcing, che in effetti aveva certificato la sicurezza di quello stabilimento. Chi ispezionerà gli ispettori, per capire come possano aver dichiarato «sicuro» uno stabilimento senza misure antincendio, sovraffollato e con porte e finestre sbarrate?. Gli ispettori del resto non hanno mai segnalato un dettaglio: che la fabbrica stessa operava in situazione illegale, senza una regolare licenza.
«L’ispezione non ha evitato la morte di quasi 300 persone e non esenta la Kik dalle sue responsabilità », insiste la Clean Clothes Campaign. Sotto pressione, la Kik dice che sta cercando di istituire un fondo per continuare a pagare i salari ai lavoratori sopravvissuti e alle famiglie degli scomparsi, che hanno un disperato bisogno di denaro per andare avanti: al momento, oltre un mese dopo la tragedia, nessuno dei lavoratori contattati dal sindacato hanno ricevuto un centesimo, risarcimenti né altro. Lo stabilimento impiegava circa 1.500 persone, e il singolo turno di lavoro 450. La campagna Abiti puliti/Clean Clothes chiede che la Kik ora renda noti i nomi degli altri acquirenti di abiti della Ali enterprises, e rivelare i dettagli di quelle ispezioni di sicurezza (www.cleanclothes.org/urgent-actions/kik-appeal#action).
La tragedia della Ali Enterprises ha acceso i riflettori, sebbene per brevissimo tempo, su una delle guerre nascoste che insanguinano Karachi: quella di relazioni industriali violente, dove il precariato è la norma, e dove gli operai (spesso operaie) che tentano di organizzarsi devono affrontare picchiatori, licenziamento, magari anche la galera. La principale fonte di sfruttamento è il sistema del subappalto, ci spiegavano tempo fa alcuni sindacalisti e lavoratori: uno stabilimento può avere un migliaio di operai, ma ne assume solo cento, gli altri dipendono dal contractor – e non potranno rivendicare nulla, neppure quei pochi benefici che a volte i padroni concedono, come il trasporto. Parlavano di salari non pagati per mesi, buste paga che dichiarano cifre molto più alte di quelle date realmente al lavoratore. Ma le autorità subiscono le pressioni degli industriali, gente influente e ammanicata con la politica. Poi ci sono quelle «ispezioni» fatte per rassicurare gli occidentali: un imbroglio da svelare.
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