by Sergio Segio | 14 Ottobre 2012 9:22
«Sapete che missione hanno i frati di Palo Alto? Convertire alla fede cristiana le macchine pensanti della Rand e della Westinghouse», dice un sacerdote americano a uno italiano in Roma senza papa, queste «cronache romane di fine secolo ventesimo» concepite da Guido Morselli nel 1966.
Meno di vent’anni prima Alan Turing (di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita: 1912, lo stesso anno di Morselli) si era sentito come «un Galileo eretico» quando, studiando le funzioni della mente, aveva constatato che alcune di esse si potevano spiegare «in termini puramente meccanici». Concedeva che queste erano «una specie di pelle che dobbiamo togliere» quando vogliamo capire cosa sia davvero la mente; ma aggiungeva che quel che resta può risultare solo un’altra pelle, e così via, e non si poteva escludere che alla fine si scoprisse che tutti questi strati racchiudevano… il vuoto. Ma allora, che ne era del libero arbitrio, manifestazione della «scintilla divina» che anima il corpo dell’uomo?
Le macchine, e in particolare i computer, non scelgono, ma si lasciano programmare; non pensano, ma simulano il pensiero. Nella sua finzione Morselli affida la difesa del libero arbitrio come prerogativa umana a una tesi dottorale compilata… da una macchina! Addio alla concezione non solo cristiana, ma già classica, dell’uomo creato a immagine degli dei. Da costoro, annotava (1963) Morselli nel suo Diario che «dobbiamo imparare perlomeno una virtù: la discrezione. Essi si comportano in ogni caso come se non esistessero». E ancora Morselli se la prendeva con i filosofi che, come Hegel, pretendono di svelare il senso recondito della storia.
Lettore attento di Darwin, concludeva (nel suo scambio epistolare con Vittorio Saltini, 1969) che proprio costui ci insegna che «non c’è ombra di finalità nelle origini della vita» e che i vari organismi emergono «senza alcun piano immanente a loro, o trascendente». Né c’è finalità «nel ciclo di espansioni, e viceversa, da cui sembra siano nate il Sole e l’altre stelle». Piuttosto, nel processo dell’evoluzione, in sé privo di qualsiasi Progetto, erano comparse creature capaci di progettualità , e queste si erano perfino illuse di proiettare le loro «buone intenzioni» sull’intero universo. Ma questo «spirito del mondo» abitava niente più che un piccolo pianeta del sistema solare e riguardava quel «minuscolo abitatore che non esisteva ancora ieri e che domani non ci sarà più», mentre il resto della realtà «tirerà avanti imperturbato per qualche altro miliardo di anni».
Morselli, filosofo e narratore insieme, è il poeta della sottrazione, cioè colui che toglie la pelle alle consolazioni metafisiche, proprio come Turing sbucciava quella strana cipolla che era la mente umana. A suo tempo Galileo notava come il compito del bravo scultore fosse quello di «levare il soverchio da un pezzo di marmo per scoprire la bella figura che vi è nascosta» e usava questa metafora per caratterizzare la scoperta scientifica. Morselli riteneva di dover fare lo stesso quando ci presentava Roma senza papa, o il re d’Italia senza corona, o il comunismo senza Marx, o la politica senza dignità .
Un processo di sottrazione che raggiunge il culmine in Dissipatio H.G., il romanzo terminato pochi mesi prima del suicidio (1973): in quello scenario da sogno, o magari da incubo — una Svizzera chiamata Crisopoli — la voce narrante dello «inconformista», come Guido definiva se stesso, contempla la scomparsa dell’intera umanità tranne se stesso; e quindi ribadisce l’irrilevanza dei propri simili.
Anni prima (1950) nel Diario aveva dichiarato con ironica parodia di Cartesio: «Soffro, dunque sono». Ma se l’esistenza è inevitabilmente sofferenza, perché non prendere congedo da essa, come già sospettava Amleto nel celebre monologo? A proposito della sua fine, qualcuno ha detto che il motivo del suicidio non andava tanto cercato nei continui rifiuti editoriali delle sue opere narrative (tutte apparse postume da Adelphi), quanto nel «disamore» di Morselli per il mondo. Ma l’anticonformista e ironico Morselli era capace di una profonda compenetrazione con le cose così come sono, spogliate dei troppi significati che noi tributiamo loro. Ne amava invece il silenzio, «non sacro né religioso», ma come pervaso da «un lieve suono metallico, di arpa toccata dal vento».
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