Meno poteri, le Regioni non ci stanno

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ROMA — Negli ultimi 15 anni il peso era stato spostato progressivamente dal centro alla periferia. Adesso si fa marcia indietro. Con il disegno di legge costituzionale esaminato ieri dal Consiglio dei ministri il Governo riporta una serie di competenze nelle mani esclusive dello Stato, tagliando fuori le Regioni. Accade per l’energia, per i porti, per gli aeroporti, per il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, per i rapporti con l’Unione europea. Accade anche per la «disciplina generale e le funzioni fondamentali» degli enti locali, con l’obiettivo di evitare che il taglio delle Province venga smontato nei prossimi mesi.
Ma al di là  dei singoli spostamenti lo Stato si riserva l’ultima parola su tutto. È l’articolo 3 del testo discusso ieri sera a introdurre la «clausola di preminenza/salvaguardia». Cosa vuol dire? Che «a prescindere dalla ripartizione delle competenze con le Regioni» le «leggi dello Stato assicurano la garanzia dei diritti costituzionali e la tutela dell’unità  giuridica ed economica della Repubblica». Formula ampia che lascia la porta aperta a ogni possibile intervento dello Stato. Non solo. Perché un settore strategico come il turismo, al momento materia esclusiva dei governatori, viene diviso in condominio fra Roma e le Regioni. E in tutte le materie che restano di competenza concorrente lo Stato guida il processo e mette i suoi paletti: avrà  la possibilità  di fissare un «termine non inferiore a 120 giorni per l’adeguamento della legislazione regionale» ai principi stabiliti per tutto il territorio nazionale.
Potrebbe sembrare una contropartita la promozione ad organo di rango costituzionale della Conferenza Stato-Regioni, l’assemblea dei «governatori» chiamata a dare il via libera sulle leggi e i regolamenti che riguardano il territorio. Ma il vero obiettivo, come si legge nelle osservazioni che accompagnano il testo, è la «deflazione del contenzioso», cioè mettere un freno a quella valanga di ricorsi alla Corte costituzionale che oggi arrivano dalle Regioni. Dice il disegno di legge che i ricorsi non saranno possibili se la Conferenza Stato-Regioni ha dato parere favorevole. Viene poi inserito nella Costituzione il controllo preventivo della Corte dei conti sugli atti delle Regioni, norma già  prevista dal decreto legge sui «costi della politica» approvato la settima scorsa. Un testo che sempre ieri è stato ritoccato per estendere il taglio dei consiglieri al Lazio che, non potendo modificare lo statuto dopo le dimissioni di Renata Polverini, rischiava di restare fuori dalla sforbiciata.
Critiche le regioni. Il presidente dei «governatori» italiani, Vasco Errani, parla di «attacco alle istituzioni» e chiede di «non procedere unilateralmente» mentre Roberto Formigoni dice «no ai diktat» che «cavalcano l’antipolitica». La Lega promette battaglia e punta a giocare sui tempi. Come ogni legge costituzionale, la riforma di ieri dovrà  passare due volte dal Parlamento, con due votazioni a distanza di tre mesi l’una dall’altra. Serve la maggioranza assoluta e, se si vuole evitare il referendum, quella dei due terzi. Da qui alla fine della legislatura i tempi sono strettissimi. Ed è stata proprio questa considerazione a spingere il governo verso «correzioni quantitativamente limitate ma significative», come si legge nella relazione che accompagna il testo. Niente taglio al numero delle Regioni, dunque, pratica che pure era stata inserita nel dossier partendo dallo studio della Fondazione Agnelli sulle macroregioni. I tempi stretti c’entrano anche con le dimissioni dei presidenti di Provincia. Ieri hanno annunciato l’addio in tre, Maria Teresa Armosino (Asti), Roberto Simonetti (Biella) e Luigi Cesaro (Napoli) mentre a Milano Guido Podestà  ha fatto marcia indietro all’ultimo minuto. Ufficialmente i motivi sono il taglio al numero delle Province e ai fondi. Ma ieri era anche l’ultimo giorno per dimettersi in caso di candidatura alle elezioni politiche.


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