by Sergio Segio | 24 Ottobre 2012 7:25
Il volume in cui sono raccolte, in seicentocinquantotto pagine, centouno interviste orali o scritte date da Italo Calvino tra il 1951, quando non aveva ancora trent’anni, e il 1985, suo ultimo anno di vita, puo’ suscitare una reazione singolare, ma non poi tanto strana: la gelosia dei ricordi. Capita spesso che i tuoi non coincidano con quelli degli altri. O che si allontanino sempre più dalla supposta realtà . Da quel ricco, bel volume, curato da Luca Baranelli, un fedelissimo di Calvino, e con l’introduzione di Mario Barenghi, suo costante, altrettanto fedele cultore, emerge spesso un Calvino allergico alla parola («questa roba che esce dalla bocca, informe, molle molle…»), un Calvino che rivendica la laconicità , un uomo di carattere piuttosto chiuso, se non ombroso, refrattario all’uso dell’io, ai richiami autobiografici (Sono nato in America,
Mondadori). Anche se generoso nel rilasciare interviste, poiché le centouno pubblicate non sono neppure la metà di quelle rintracciate. Ho comunque conservato di Calvino un’immagine personale: quella di un meraviglioso attore.
È vero che non c’è nulla di meno assoluto e di più relativo del ricordo, ma la prima reazione mi conduce a credere che con quel libro, in cui si può rintracciare un sia pur vago, sfuggente, autoritratto in divenire, si sia infiltrato nella mia memoria un dubbio devastatore, un virus capace di sfocare le immagini che vi galleggiano come relitti. Un virus assassino che tenta di spegnere la luminosa figura di un Calvino conservata come un’icona, irreale ma ben disegnata nella mente, da quella tarda estate del 1985 in cui ho assistito alla sua sepoltura nel cimitero sul mare di Castiglione della Pescaia. E nasce poi l’inevitabile, contraddittorio sospetto che a tradirmi sia la mia stessa memoria, in cui i ricordi oltre a sfilacciarsi, ad annebbiarsi, si adeguano a desideri inconsci. Nei ricordi si è conservatori.
Il volume dedicato alle interviste di Calvino mi ha lasciato dunque nell’incertezza. Ma non per molto. Il mio ricordo è stato sopraffatto o si è appannato? Il tempo riduce all’essenziale l’immagine delle persone scomparse e non dimenticate. Ed io vedo ancora, appunto, Calvino come un grande attore, capace di sprigionare con lo sguardo espressioni chiare, chiarissime: rigetto, noia, ironia, comprensione, indifferenza, fastidio, amicizia, simpatia, a volte persino un entusiasmo candido, ingenuo; e con la parola capace di suscitare forti emozioni. Era un padre tenero, e apprensivo, quello che all’aeroporto di Fiumicino, mi affidò la figlia Giovanna, adolescente, che veniva a trascorrere le vacanze nella casa di Danielle, a Hammamet.
Parlando Calvino si inceppava spesso, si interrompeva, emetteva frammenti e rottami aforistici, ricorda Pietro Citati, suo amico da quando aveva ventiquattro anni, nella Torino grigia di quello che era ancora il dopoguerra. Allora Calvino era un giovane luminoso, con uno sguardo fresco e gentile, che si innamorava spesso. Era un ingenuo, di una limpidezza provinciale. Poi ha subito una lunga metamorfosi, è diventato un grande narratore, ma anche un uomo via via sempre più tormentato dalla imperativa necessità dello scrittore di mettere in movimento delle idee. E anche il suo sguardo si è via via oscurato. Questo dicono coloro che hanno seguito Calvino in tutto l’arco della sua vita.
L’ho conosciuto soltanto negli ultimi dieci anni, soprattutto in quelli parigini, e quindi non ho termini di paragone. Lo ricordo come un meraviglioso attore perché in varie occasioni l’ho visto uscire dal suo silenzio, dalla sua riservatezza, in cui sembrava rinchiuso come in una bolla di vetro. Ho assistito a evasioni dalla laconicità simili a esplosioni, che mandavano in frantumi la timidezza. E non accadeva soltanto quando aveva a disposizione un pubblico e scattava quello che oso chiamare il suo istinto d’attore.
Lo rivedo al Beaubourg, una sera, mentre parlava a centinaia di giovani parigini che straripavano sulla piazza, sotto gli altoparlanti, dai quali usciva il suo accentato, caldo francese. Le parole scorrevano senza esitazioni. Senza inciampi. Il tema della conferenza era la pittura metafisica di De Chirico. Un argomento ideale per l’autore delle
Città invisibili e delle Cosmicomiche.
E fu un successo, da grande spettacolo. Ci furono lunghi applausi, quasi come quelli all’Opéra Garnier, il giorno in cui andammo insieme a vedere il Simon Boccanegra,
e lui, Calvino, era il solo a non indossare lo smoking, allora quasi di rigore alle prime, e il suo vestito grigio chiaro risaltava nella platea come una macchia bianca. Situazione che non lo imbarazzava affatto, anzi che lo rendeva di buon umore. La sua ironia era in quell’occasione smagliante. Al Beaubourg gli applausi prolungati lo resero felice. Era appagato. Non sprecava certo le parole. Ma era pronto ad aprirsi. A mio avviso, da giovane, gli è capitato di voler essere un attore.
Roland Barthes, che fu un suo ammiratore, ricorreva a una parola antica (lui diceva settecentesca) per definire quel che vedeva nell’arte di Calvino, e quel che traspariva dell’uomo da quel che scriveva: une sensibilité.
Aggiungeva: un’umanità . Avrebbe voluto dire anche una bontà , ma la parola gli sembrava troppo pesante da portare e quindi da infliggere. Per Barthes in tutta l’opera di Calvino c’è un’ironia mai offensiva, mai aggressiva, e anche un costante distacco e un sorriso. Tutto questo era ben visibile anche nel personaggio non solo nei suoi scritti. Ed io, testardo come Cosimo, il Barone rampante, conservo questa immagine.
Le interviste sono da centellinare.
Non da leggere tutto d’un fiato come un racconto. Luca Baranelli è stato un bravo ingegnere: ha ricostruito una lunga strada zigzagante, piena di curve, con sensi unici che all’improvviso prendono direzioni opposte. Insomma un itinerario con tante inevitabili contraddizioni. In trentaquattro anni di vita, quanti sono quelli in cui sono state concesse le interviste, gli umori, le situazioni, i sentimenti, le idee cambiano. E cambiano gli interlocutori, di incostante qualità . Calvino si adegua. Se la cava a volte ricorrendo allo scritto. Scrive persino le domande. Gli capita di recitare. Come quando dice che quando si esprime, sia a voce che per scritto, “è un disastro”.
Lo vedo ancora al Café de Flore, a Saint-Germain-des-Prés, davanti alla casa in cui aveva un piccolo appartamento, proprio accanto alla Brasserie Lipp. Poche stanze, affacciate su un cortile interno, comperate dopo avere lasciato il quasi periferico Square de Chà¢tillon dove aveva vissuto per anni con la moglie Chichita e la figlia Giovanna. Lui pensava che al Flore, un tempo frequentato da Sartre e Beauvoir, e da tante altre celebrità letterarie (la non sua amica Marguerite Duras abitava nell’attigua rue Benoit), e poi finito in mano a una clientela turistica, le uova strapazzate al salmone, una specialità della casa, fossero esageratamente care. Aveva ragione. Ed è quindi davanti a una bottiglia di acqua minerale che cominciò a parlarmi di Stevenson.
C’era stata un’ennesima nuova edizione del Master of Ballantrae e dovevo fargli un’intervista per Repubblica. Ma ci sbrigammo presto, perché nella conversazione fece irruzione Conrad. E allora iniziammo un gioco: una specie di gara a chi conosceva meglio le trame dei suoi romanzi e racconti: Lord Jim (del quale credo avesse cominciato e poi interrotto la traduzione), Tifone, La linea d’ombra, Il negro del Narciso, Il corsaro, L’agente segreto, La follia di Almayer…
Si era laureato con una tesi su Conrad, ma lo ignoravo. Fui spesso corretto, e in definitiva largamente battuto. Non umiliato perché era indulgente. Mi redarguiva col sorriso. Aveva una memoria rapida, scattante. I nomi dei personaggi conradiani, e le loro vicende, gli uscivano precisi. Parlava senza incepparsi. Sciolto. Animato. Davanti al bicchiere d’acqua minerale posato sul tavolino del Flore, era un grande attore. E così amo ricordarlo.
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