Malati terminali cercansi, l’ultima campagna shock

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ROMA — «Cerchiamo malati terminali per ruolo da protagonisti. Fatevi vivi». Voce da spot pubblicitario e immagine fissa di un letto vuoto dove qualcuno poggia un contenitore col liquido che aiuterà  per l’ultimo viaggio. Pubblicità  choc, che colpisce come uno pugno allo stomaco. Volutamente. L’ha fatta l’associazione radicale Luca Coscioni, che ieri ha lanciato la sua campagna per rendere legale l’eutanasia. «Per impedire che siano altri a decidere per noi, in nome di Stati o religioni; per garantire libertà  e responsabilità  delle nostre scelte, drammatiche e felici. Fino alla fine ». Pochi secondi (verranno messi sul sito www.eutanasialegale. it, su You tube, social network e Ebay, ma sono pronti anche formati per giornali e radio) che hanno provocato polemiche e condanne bipartisan, da Beppe Fioroni del Pd a Eugenia Roccella del Pdl. Discussioni e dibattiti in questi giorni già  tesi in cui si discute della legge sul testamento biologico, duramente contestata da laici e centrosinistra perché «non rispetta le volontà  del malato e lascia l’ultima parola al medico».
«Cerchiamo malati terminali, ma anche attori disposti a recitare negli spot sulla libertà  di scelta, perché il punto è sempre quello: il diritto di decidere sulla propria vita, su come essere curati e come morire». Filomena Gallo, presidente della Coscioni, annuncia l’avvio di una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare sul diritto all’eutanasia e sul testamento biologico. «Siamo in uno Stato laico e non si può dover finire ogni volta in tribunale per vedere rispettati i propri diritti, violati per ignoranza o paura. Oggi chi aiuta un malato senza speranze a morire rischia dodici anni di carcere. Se vogliamo che le cose cambino, dobbiamo darci da fare e farci sentire».
Già  nel 2010 i radicali scelsero la via della provocazione mettendo in rete uno spot pro eutanasia girato dall’associazione Exit internazional. Immagini senza enfasi, senza toni da crociata: un attore raccontava la sua vita, fatta di scelte banali, quotidiane. Fino a quella finale. «Perché non ho scelto di essere un malato terminale, perché non posso mangiare, mi fa male come ingoiare lamette da barba, perché non ho scelto io che la mia famiglia viva questo inferno con me». Fotogrammi vietati in Australia, permessi in Canada e mai trasmessi in tv in Italia, dove provocarono dure reazioni.
Eugenia Roccella, Pdl, allora sottosegretario alla salute, sul nuovo spot è categorica: «C’è la libertà  di drogarsi, guidare senza casco, uccidersi, ma non un diritto per legge, esigibile dal servizio sanitario. Questo annuncio mortifero non credo troverà  clienti. I malati vogliono cure, assistenza, condivisione, solidarietà . Quasi sempre chi decide di farla finita si sente solo oppure un peso per gli altri. Dobbiamo aiutare i malati a vivere, non a morire».
Contrario all’iniziativa anche Fioroni del Pd: «Il tema della morte coinvolge in modo cosi profondo le persone che esige rispetto. Questo spot non è una provocazione, ma diventa offesa alle coscienze di molti. Io comunque dico no all’accanimento terapeutico come all’eutanasia».
Diversa la posizione di Mina Welby. Lei il dolore di lasciar andare una persona amata lo conosce bene, avendo rispettato con sofferenza il desiderio di suo marito Piergiorgio di staccare le macchine che lo legavano alla vita dopo anni di completa paralisi, tranne un battito di ciglia che usava per comunicare. «Quando ho visto lo spot sono rimasta senza parole, non sono riuscita a dormite, tanto l’ho trovato duro. Poi ho pensato a quelli che mi chiamano, che vogliono farla finita ma non hanno soldi per andare all’estero, che non ne possono più. E allora ho pensato che sì, anche questa comunicazione violenta ha un senso, perché se ne parli e si discuta di un problema reale e drammatico».


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