L’industria manifatturiera celebra il giorno dell’orgoglio

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Il padrone di casa, Guido Barilla, ha esaltato i valori della fabbrica e ha messo alla berlina «il capitalismo di carta e finanza». E il presidente del Consiglio, Mario Monti, che nella sua lunga attività  europea si è concentrato di più sui problemi della domanda (la realizzazione del mercato unico), ha sottolineato il ruolo della manifattura in un’Italia industriale che vuole restare — parole sue — seconda in Europa solo alla Germania.
Entrambi, l’industriale e il premier, hanno spiegato, poi, che stiamo parlando di un processo produttivo ormai lontanissimo dai cliché del Novecento. A Rubbiano, infatti, non si respirava nostalgia, tutt’altro. Per fare degli ottimi sughi bisogna avere il culto della qualità  delle materie prime ma per far nascere un impianto tecnologicamente d’avanguardia come quello parmense si sono alternate al lavoro 200 ditte esterne specializzate e circa 2 mila tra tecnici e operai. Il capitalismo industriale moderno è a forma di rete, ha già  incorporato una contaminazione tra manifattura e servizio e per essere competitivo ha bisogno di ricercare l’optimum in ciascun punto del suo itinerario, dalla cura del miglior basilico fino al layout della fabbrica. E l’ottimo lo si può rintracciare anche nell’afflato comunitario che lega visibilmente la dinastia dei Barilla ai propri dipendenti, saliti anche loro sul palco ieri per ricevere gli applausi del pubblico.
L’azienda del Mulino Bianco oggi per metà  vende in Italia e per metà  esporta. Ma se vuol crescere, come i tre fratelli giurano, nei prossimi anni deve far salire la quota dell’export fino al 70% del fatturato. Già  oggi i sughi che si fanno in Emilia sono diretti sui principali mercati esteri, si partirà  da una produzione di 35 mila tonnellate e si spera di arrivare addirittura a 60 mila. A Parma sanno di aver cambiato diversi, forse troppi, amministratori delegati in pochi anni e da qualche giorno si è insediato Claudio Colzani, un manager che viene da una delle università  del largo consumo, la Unilever. Toccherà  a lui tentare una nuova avventura americana aprendo negli States dei ristoranti di pasta, spetterà  a lui inventare una strategia per sfondare nel promettente mercato brasiliano, toccherà  a lui decidere se e come provare a mettere un piede nella difficilissima Cina dove la pasta è assai arduo che possa sfondare. In passato non tutti gli sbarchi all’estero sono stati coronati da successo e a Parma ancora non riescono a disfarsi degli investimenti industriali che avevano fatto in Germania (la Lieken) e si sono rivelati sbagliati. Ma per il food italiano non esiste il pareggio, o nei prossimi anni sfonda all’estero o dovrà  rivedere le sue ambizioni. Tedeschi e francesi intanto viaggiano a mille e se c’è un segmento della competizione globale nel quale non possiamo abdicare è proprio quello del cibo.
Se questo è l’obiettivo non basta però ripetersi a vicenda l’elogio della qualità  italiana. Sarebbe necessario un salto di qualità  che si stenta a vedere. C’è chi parla della necessità  di riunire le competenze governative e varare un «Ministero del Bello e del Buono», chi sottolinea la debolezza del nostro sistema fieristico (nel mirino c’è Cibus) in un settore in cui invece dovrebbe primeggiare e chi infine invoca un Carrefour italiano. Di sicuro da marchi globali come Barilla è lecito attendersi grandi innovazioni, potrebbero rappresentare non solo delle società -prodotto ma anche delle straordinarie portaerei del made in Italy. Si tratta di provare.


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