«Il dissidente Xiaobo? Spero torni in libertà »

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Un opportunista, un abile navigatore che ha sempre avuto l’accortezza di non urtare i suscettibili censori del Partito comunista? O invece un grande scrittore che «con un realismo allucinatorio riunisce favole, Storia, presente» secondo la motivazione dei giurati di Stoccolma? Già , ma chi è davvero Mo Yan, il primo cittadino cinese a vincere il Nobel per la letteratura? Sulle qualità  della sua scrittura nemmeno i più severi critici e avversari hanno da obiettare. Così l’artista Ai Weiwei, così il poeta Liao Yiwu, che domani a Francoforte riceverà  il Friedenspreis, il Premio per la pace ogni anno assegnato dall’Unione librai ed editori tedeschi. L’esule Liao Yiwu, che vive a Berlino da due anni dopo esser fuggito dal Paese in cui era stato imprigionato e torturato, parlando ieri ai giornalisti presenti alla Buchmesse ha detto che Mo Yan è un «autore di regime». Ai Weiwei ha rincarato la dose: l’aver premiato «un autore che collabora con un potere che continua ad avvelenare il popolo» è una vergogna per l’Accademia del Nobel.

La lista delle accuse è lunga. Intanto, Mo Yan è sempre iscritto al Partito, ed è il vicepresidente dell’Unione degli scrittori cinesi. Nel 2009, quando la Cina fu ospite d’onore alla Fiera di Francoforte, lui faceva parte della delegazione che escludeva gli intellettuali dissidenti. Il governo di Pechino negò il visto fra gli altri allo stesso Liao Yiwu. Quando in una sala in cui Mo Yan parlava ci furono proteste di alcuni cinesi che vivevano all’estero, lui se ne andò. E ancora. Recentemente, l’autore di Sorgo rosso ha vinto il premio Mao Zedong, e poi ha partecipato insieme con altri scrittori a una cerimonia in onore di Mao e del discorso in cui imponeva il controllo sulle opere degli artisti. Nel 2010, quando il Nobel della pace fu assegnato a Liu Xiaobo, Mo Yan non disse una parola, anche se conosceva bene l’intellettuale imprigionato passato dalla critica letteraria alla critica contro il regime. Ieri, però, il neo-Nobel ha subito corretto quella sua omissione: ha detto di sperare che Liu Xiaobo possa presto tornare in libertà , e che possa continuare a esprimere le sue idee. Anche se poi ha aggiunto, riferendosi al discorso di Mao, che le idee del Grande Timoniere erano sostanzialmente «ragionevoli». Ai suoi critici Mo Yan ha replicato seccamente: «Criticano i miei romanzi e non li hanno letti; e quelli che mi attaccano online sono tutti iscritti al Partito».
Nella conferenza di ieri, Liao Yiwu ha detto che Mo Yan non ha mai trattato la questione dei diritti umani nella Cina di oggi. Grande letterato, senz’altro, «ma prima viene la verità , dopo la letteratura». E la verità  chiede che non si scordi il massacro di Tienanmen. Una questione che brucia. Anche se, anni fa, proprio Mo Yan l’aveva affrontata affermando che «la letteratura, è vero, non sfugge alla politica, ma credo che la funzione dei romanzi sia più grossa e importante di ogni lavoro di critica sociale». Insomma, da un lato c’è chi pensa che l’arte e la letteratura abbiano senso solo se sono strumenti di lotta per la libertà , dall’altro c’è invece uno scrittore che, al riparo dagli scontri, pensa che l’opera d’arte sia un valore in sé, un bene assoluto. Del resto, Mo Yan ha ricordato che oggi forse non si capisce più come scrivere certi romanzi negli anni confusi e torbidi del dopo-Rivoluzione culturale fosse rischioso. Certo, sulle questioni drammatiche della Cina post-1989 («In quell’anno — diceva Liao Yiwu ieri — per voi tedeschi ci fu la caduta del Muro, per noi cinesi invece il massacro di Tienanmen») Mo Yan ha taciuto, o tutt’al più ha solo fatto allusioni. Il suo nome d’arte Mo Yan, del resto, vuol dire «quello che non parla». «Me lo dicevano sempre i miei genitori, da bambino: non parlare in pubblico, possono venire solo guai». Lui, il Nobel 2012, ha vissuto in tempi bui. Forse — scriveva ieri la Sà¼ddeutsche Zeitung — «sarebbe ingeneroso che chi non ha mai conosciuto un simile regime gli faccia oggi dei rimproveri».


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