by Sergio Segio | 5 Ottobre 2012 6:52
Ma probabilmente, senza gli scandali emersi nelle ultime settimane nel Pdl laziale e altrove, l’operazione sarebbe stata meno facile; e la reazione del partito trasversale degli amministratori ben più determinata. Oggi, invece, a pochi mesi dalle elezioni politiche e con la magistratura e la Guardia di Finanza che setacciano i conti e gli atti della nomenklatura di alcune Regioni, la politica appare disarmata e collaborativa.
Si mostra incapace di rivendicare comportamenti virtuosi anche lì dove il malaffare e l’inefficienza non sono stati dominanti. Denuncia un filo di rassegnazione, oltre che il timore di ritrovarsi con un sistema di governo smantellato e di colpo sbilanciato. La sensazione dominante ai vertici dei partiti è che anche il ridimensionamento degli enti locali si iscriva in una manovra tesa a dilatare la parentesi del governo di Mario Monti oltre il 2013. Quello che le forze politiche sono meno disposte a riconoscere, è che con la confusione e l’inconcludenza a livello nazionale stanno fornendo ottime ragioni, o pretesti, a queste ipotetiche manovre. La classe politica sembra rassegnata a farsi recapitare dal governo dei tecnici un messaggio di sfiducia perché si rende conto che arriva non tanto da Monti ma dall’opinione pubblica; e riguarda tutti: municipi, province, governatori.
«Il decreto sul finanziamento degli enti locali», ha spiegato ieri il presidente del Consiglio, «riguarda un’Italia vecchia esistita fino ad ora, che preferiremmo non vedere più in futuro». Gli sprechi folli del Lazio, abbinati agli scandali in Lombardia, Puglia e Sicilia e alle indagini che adesso toccano anche Piemonte ed Emilia-Romagna, offuscano le differenze. Tendono a mettere in mora un sistema di potere sfigurato non da cesti di cosiddette «mele marce», ma da norme confezionate su misura per favorire l’irresponsabilità e comportamenti in qualche caso, come si è visto, da codice penale. Ma la bocciatura di uno schema di amministrazione che ha fatto il suo tempo lascia aperte le incognite sul futuro. Rimane da capire se una stretta del genere permetterà di amministrare meglio; oppure se accanto ad una sacrosanta oculatezza nella spesa si registrerà un vuoto di potere.
Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, chiede di liquidare «la retorica federalista» e di rivedere il titolo V della Costituzione: quello modificato dal centrosinistra nel 2001. D’altronde, ricorda, lo stesso segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, adesso ammette che fu un errore perché concedeva alle Regioni un’autonomia sconfinata, con risultati esiziali. Ma il punto interrogativo riguarda l’effetto dei controlli stringenti imposti a Regioni, Comuni e Province da Palazzo Chigi, attraverso il filtro della Corte dei Conti. Il timore è che per evitare errori o, peggio, guai giudiziari, le burocrazie locali si fermino.
In teoria, un simile pericolo non dovrebbe esistere, perché le proposte del governo per ridurre i costi della politica ricalcano i suggerimenti delle stesse Regioni, ansiose di recuperare credibilità ; e perché chi non si adegua nei tempi previsti ai tagli, si vedrà ridotti i fondi trasferiti dallo Stato. Sebbene alcuni provvedimenti siano considerati troppo punitivi, il patto tacito è quello di non impugnarli contro il governo. Ma è inevitabile porsi una domanda: che fine farà la filosofia dell’austerità espressa da questo decreto dopo le prossime elezioni. Nelle intenzioni di Monti, si tratta di un’altra delle leggi destinate a «trasformare l’Italia». La volontà comprensibile e legittima della politica di riprendere in mano il governo dopo il voto, tuttavia, allunga un’ombra sull’intera operazione. C’è un blocco di interessi che per il momento si è piegato, ma non abbandonerà facilmente il campo.
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