Le virtù di una nuova forma di vita

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Il pensiero politico contemporaneo è un teatro geofilosofico secondo Roberto Esposito. C’è stato il momento tedesco che ha elaborato la partitura cangiante dell’hegelismo e del maxismo, fino a stingersi nella decostruzione di Heidegger. Poi quello della decostruzione francese e della French Theory. Negli anni Ottanta, è stato il turno della filosofia analitica che si è imposta a partire dal mondo anglosassone. Nel complicato gioco delle egemonie culturali, e non della pura e semplice continuità  di elaborazioni basate su astrazioni accademiche, oggi sarebbe venuto il tempo dell’Italian Theory, della filosofia italiana che con Giorgio Agamben e Antonio Negri continua a orientare il dibattito sulla biopolitica.
L’occasione per tornare a riflettere su questa lettura geofilosofica è data dalla pubblicazione delle quattordici interviste rilasciate da Esposito in otto paesi diversi contenute nel volume Dall’impolitico all’impersonale: conversazioni filosofiche, a cura di Matìas Saidel e Gonzalo Arias (Mimesis, pp. 211, euro 20). Per Esposito questa è anche un’occasione per ricostruire le linee interne, e fare un bilancio, di una ricerca che è passata da un assunto consapevolmente decostruttivo sul concetto di «comunità », in un libro come Communitas, fino al più recente Il pensiero vivente. La sua tesi sull’«Italian Theory» non è il risultato del mero successo editoriale che i libri di Negri o quelli di Agamben continuano ad avere sul mercato anglosassone, ma risponde ad un’argomentazione più profonda e di ordine storico. Mentre la filosofia francese, a partire da Cartesio, ha privilegiato la dimensione della coscienza o del dialogo interiore con Pascal, la filosofia italiana sin dalle sue origini, con Machiavelli, Bruno, Campanella, Vico, fino a Gramsci, si è concentrata sulla categoria di «vita» nella sua complessa relazione con la storia e la politica. Dal crollo del Muro di Berlino, e ancora più con l’esplosione della crisi del capitalismo finanziario, è cresciuta la necessità  di un’alternativa al potere che all’attuale deriva neoliberista. E la filosofia italiana, pur nelle differenze che oppongono Agamben a Negri, come allo stesso Esposito, sembra oggi interpretare questo desiderio di conflitto, oltre che la ricerca di un nuovo modo di concepire, e praticare, le istituzioni.
Un assunto, quello di Esposito, inevitabilmente polemico: l’«Italian Theory» è un pensiero radicalmente materialistico che si contrappone alla filosofia analitica e, ancor di più, alla teologia politica – nella sua doppia versione: messianica o apocalittica – che rappresenta il suo vero attuale antagonista: epistemologico, filosofico, per non parlare delle soluzioni politiche prospettate da entrambe. Parliamo, in particolare, di Slavoj Zizek o di Alain Badiou che Esposito non cita quasi mai nelle sue conversazioni, preferendo soffermarsi sulle differenze anche sostanziali con Negri o Agamben. Se per il primo, l’alternativa all’Impero consiste nella decisione dell’esodo, cioè nella liberazione della vita dallo sfruttamento del biopotere, per il secondo l’esodo sembra configurarsi nella forma messianica di una «comunità  a venire», l’unica capace di sfuggire alla presa del potere sovrano sulla nuda vita. Il filosofo napoletano formula una terza ipotesi, quella della «biopolitica affermativa», che oggi definisce la sua posizione nel dibattito internazionale. Pur condizionata da un’originaria antinomia tra conflitto e immanenza, cioè dalla difficoltà  di pensare un soggetto antagonista contemporaneamente dentro e contro (come sperimentato dall’operaismo), secondo Esposito la filosofia politica italiana riesce oggi a concepire il conflitto come elemento virtuoso e produttivo di una nuova forma di vita che esprime la potenza di una «politica della vita» costituente.
È ormai evidente che il destino di questo dibattito dipende da un bilancio dell’eredità  di Foucault e di Deleuze. Su questo piano il confronto resta aperto anche perchè, a differenza di quanto avvenuto nel mondo anglosassone o in Francia, in Italia la ricezione del dibattito sulla biopolitica non è passata attraverso una lotta filosofica contro il neoliberismo, un elemento che spinse lo stesso Foucault a riformulare il concetto di biopolitica alla fine degli anni Settanta.
Rispetto alla posizione di Negri, che traduce questo conflitto nello scontro tra la biopolitica e il biopotere, la posizione di Esposito, come quella di Agamben, risentono di questa assenza. È possibile articolare una «biopolitica affermativa» senza una critica del neoliberismo e dei dispositivi che ha impiantato in tutte le pieghe dell’esistenza: ad esempio, la teoria del capitale umano, quella del new public management, l’ideologia della valutazione permanente (accountability) o della meritocrazia? L’itinerario è tracciato, la strada resta aperta. Non è escluso che l’«Italian Theory» prenda questa direzione.


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