by Sergio Segio | 4 Ottobre 2012 6:28
CARACAS. Damas ha poco meno di cinquanta anni e fa il contabile per lo Stato. È cresciuto nel “23 de enero”, il quartiere più chavista della capitale nel profondo sud di Caracas. Il “bastione ribelle”, dicono qui, perché questa fila di casermoni paralleli da dieci e più piani è stata sempre piena di comunisti, anarchici e socialisti. Il sobborgo venne costruito alla fine degli anni Cinquanta quando un dittatore visionario e “di sinistra”, Perez Jimenez, intraprese un ampio programma di edificazione popolare per cancellare dalla città i “ranchos”, le favelas che ancora oggi s’arrampicano sulle colline. In realtà doveva servire per alloggiare militari di basso rango ma venne occupato da migliaia di famiglie di poveri e poverissimi. Da allora, e per più di quarant’anni, fino all’arrivo di Chà¡vez — racconta Damas — due settimane prima del voto il “23 de enero” veniva occupato dall’esercito che imponeva il coprifuoco. Le urne con i voti di solito riemergevano da qualche burrone dov’erano state gettate qualche giorno dopo le elezioni. «Quarant’anni d’imbrogli elettorali contro di noi», dice Damas.
Non è più così da quando il “caudillo rosso” ha trovato il suo popolo di elettori fedelissimi in queste vallate e la «rivoluzione bolivariana avanza ». Damas s’è operato a Cuba. Alla colonna vertebrale. Un intervento che non avrebbe potuto pagare e che ha fatto gratis grazie all’accordo di scambio con l’Avana: petrolio a costo zero per Raùl, medici e operazioni per il Venezuela. Poi ci fa vedere i suoi occhiali da vista, anche quelli gratis grazie a Chà¡vez e la mazzetta dei “cesta ticket”, i buoni alimentari mensili da 200 euro cui hanno diritto tutti per comprare, sempre gratis, in tutti i supermercati. Attirati dal dialogo di fronte ad un baretto scalcinato che distribuisce birra e rum, a Damas si sono aggiunti altri residenti del “bastione ribelle”: Armando, Jaime, Roberto e Merwin, il più giovane, che snocciolano tutto il bene che «il socialismo del XXI secolo» ha fatto per il loro quartiere. Hanno la radio comunitaria pagata dal governo e stanno installando pure una televisione tutta per loro; poi c’è “Info centro”, il palazzetto informatico dove possono collegarsi a internet; e il centro sanitario, con medici cubani naturalmente, con l’ambulatorio che riceve a qualsiasi ora. E poi i libri gratuiti per i bambini che vanno a scuola e per i grandi. Chà¡vez ha fatto distribuire milioni di copie della nuova Costituzione («qui la conosciamo tutti a memoria », chiosa Damas) e, per le ore di tedio, altri milioni di libri del “Don Chisciotte”. Mentre il canale tv nazionale (vtv), superoccupato dai chavisti, ha iniziato a produrre anche telenovelas come “Barrio Sur” (quartiere sud) dove tutta l’azione si svolge nei quartieri popolari.
A casa di Damas la rivoluzione ha anche portato il gas diretto e qualche imbarazzo si nota solo quando si parla di politica e delle ambigue alleanze internazionali di Caracas. Iran, Russia, Bielorussia… Finché uno di loro sbotta e dice: «Meglio l’Iran degli ayatollah che il demonio Usa». È lo sguardo strabico della vecchia sinistra latinoamericana con “Satana” che sono le multinazionali americane perché hanno depredato fin quando hanno potuto il “cortile di casa” e la terra promessa fa rima con L’Avana, il ‘59, Castro e Che Guevara. Al “23 de enero”, Henrique Capriles, il giovane avversario di Chà¡vez, viene percepito come l’ennesima reincarnazione dell’aristocrazia venezuelana, “los escualidos” (gli squallidi), che vogliono tornare al potere per riprendere il controllo sull’unica cassaforte del paese, Pdvsa, l’holding statale del petrolio, che oggi fornisce a Chà¡vez tutti i fondi che, nel bene e nel male, redistribuisce. «Per farlo meglio e a favore di tutti», dice Capriles che ha puntato tutte le sue carte sulla riconciliazione del paese dopo anni nei quali Chà¡vez ha giocato ad aizzare una metà contro l’altra.
Nel 1998, la prima volta, Chà¡vez vinse le elezioni con il 16 percento di vantaggio sul suo avversario.
Nel 2000 con il 22 percento. Nel 2006 con il 26 percento. E domenica prossima si torna al voto. Per Chavez è stata fin qui una marcia trionfale. In quattordici anni non ha mai perso se si esclude il referendum costituzionale del 2007 nel quale chiedeva pieni poteri e venne sconfitto per un soffio. Perché mai oggi di fronte al suo quarto mandato molti osservatori si sono convinti che potrebbe anche perdere? Di certo c’è il logorio del potere. Capriles ha quarant’anni (diciotto di meno del presidente), un’immagine giovanile, onesta, sportiva con il berretto da baseball (sport nazionale) e le scarpe da ginnastica. E aspira a rappresentare il “cambiamento”. Chà¡vez è la continuità , concetto di per sé perdente in una società giovanissima come quella venezuelana. Poi è anche malato. Ha sempre la faccia gonfia. Dicono per gli steroidi che prende per superare i dolori e l’handicap fisico di un sarcoma incurabile che è da due anni un assoluto “segreto di Stato”. Poi Capriles è riuscito ad unificare intorno a sé tutti i mille rivoli dell’opposizione, da destra a sinistra, e promette di combattere una piega che duole molto: assalti, omicidi, sequestri. In questi anni Caracas è diventata la seconda città più pericolosa dell’America Latina con una media di 80 assassinii ogni 100mila abitanti. Trecento morti ammazzati ogni weekend.
Ma il vero scontro in questo voto che sembra essere diventato “la madre di tutte le elezioni”, per le conseguenze anche geostrategiche che potrebbe avere una sconfitta della rivoluzione bolivariana, è sul modello economico. È vero che Chà¡vez è riuscito a migliorare le condizioni di vita delle fasce più povere. Ma restano poveri e dipendono completamente dallo Stato. Qualche dato: in dieci anni l’industria privata s’è contratta di un terzo, sono morte 4mila imprese su 11mila. È scesa brutalmente
la produzione tessile, quella meccanica (auto e altro) e quella agricola. Oggi l’80 percento dei prodotti che vengono consumati nel paese sono importati. Perfino la benzina raffinata. E sono cresciuti a dismisura burocrazia e impiego statale. I ministeri sono diventati ventinove e gli impiegati nel petrolio, Pdvsa, sono cresciuti da 32mila, nel 1998, a 105mila oggi mentre la produzione di greggio è la stessa o è diminuita. Molte fabbriche sono state nazionalizzate e dipendono anch’esse dallo Stato. L’inflazione è la più alta del sub continente, il 28 percento nel 2011, più o meno lo stesso quest’anno. È il ritorno miracoloso — grazie al prezzo del greggio — del “Venezuela Saudita” degli anni Settanta con grande sperpero di denaro pubblico e profonda corruzione. Il controllo sul cambio spiega una parte del malessere anche se non contagia la qualità della vita della classe medio-bassa. Ai venezuelani è proibito cambiare più di 400 dollari all’anno e, se viaggiano in vacanzie
za all’estero, possono usufruire di una carta di credito statale con 2.500 dollari. Lo stesso vale per le imprese che importano prodotti
che devono essere autorizzate dal governo. Questo ha fatto esplodere il mercato illegale del cambio del dollaro dove la moneta Usa vale
tre volte rispetto al cambio ufficiale e, in sostanza, creato anche la “boliborghesia” (borghesia bolivariana) rappresentata da chi, grazie alla prossimità con il potere, può importare merci comprando i dollari calmierati (che indebitano le casse statali) mentre tutti gli altri devono finanziarsi al mercato nero.
Infine, gioielli del Patriarca, ci sono i fondi di investimento stranieri che Chà¡vez gestisce in assoluta solitudine senza alcun controllo reale. Sono accordi sottoscritti con la Cina, la Libia, la Siria, la Bielorussia e l’Iran nei quali questi paesi versano milioni di dollari in cambio delle forniture di idrocarburi (greggio e gas). Negli ultimi giorni, dopo che Capriles ha conquistato Caracas e ha riempito la storica avenida Bolivar con decine di migliaia di oppositori, la campagna è diventata all’improvviso molto incerta. Oggi, sul palcoscenico della Bolivar, tocca ai chavisti ma è probabile che nessuno dei due candidati sappia per certo come andrà davvero a finire. Lo
stratega di Chà¡vez è un brasiliano. Joao Santana, quello che ha riportato al potere Lula nel 2006 e trascinato una sconosciuta Dilma Rousseff al successo nel 2010. Santana ha ammorbito le parole d’ordine. Meno rivoluzione, più cuore, patria e amore. Per riassorbire tutti quegli indecisi infastiditi dalle derive estremiste e intolleranti del chavismo o delusi dalle promesse mancate. Anche lo spin doctor di Capriles è brasiliano. Marcelo Simà¶es, più giovane, vivace e aggressivo di Santana. Se non ci fosse di mezzo l’ideologia, Capriles che promette di conservare e migliorare tutti i programmi sociali (le misiones) realizzati da Chà¡vez avrebbe già vinto la partita.
Per Damas e i suoi amici del “23 de enero” è troppo difficile dimenticare quando si svegliavano con i soldati sulla porta di casa e i loro voti finivano nel burrone. Ma comunque sia, l’autunno del comandante invincibile è cominciato e lo sanno anche loro.
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