La sapienza del santo ciabattino

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«Se ci sono uomini morti che vagano nel mondo della confusione e immaginano di stare continuando la loro solita vita, forse anch’io sto dimorando nel mondo della confusione?». Risposta: «Se un uomo sa che c’è un mondo della confusione, allora significa che non dimora in esso». Questo dialogo che Martin Buber ci ha raccontato dice chi è Martin Buber. Nato nel 1878, sionista a vent’anni, vissuto nella Heppenheim dove abita per un po’ anche Romano Guardini, professore a Francoforte, trasferitosi a Gerusalemme, dove vive fino al 1965, Buber non è solo il filosofo del principio dialogico: è colui che pronuncia e risana la tragedia del Seicento ebraico, che fra il 1676 e il 1677, anni della morte di Spinoza e Shabbatai, sembra avere paralizzato la storia di Israele.

Spinoza, infatti, denuncia uscendo dall’ebraismo l’insufficienza della teologia barocca. Shabbatai, che dopo essersi proclamato messia, aver acceso la speranza di tutta la diaspora e incantato col suo ascetismo le comunità  del Mediterraneo si converte all’Islam, crea una devastazione incalcolabile della speranza: un trauma che si propaga nell’Europa orientale fino alla predicazione di Jacob Frank che, a metà  del Settecento, si presenta come uno Shabbatai redivivo, entra nel cattolicesimo romano e ne diventa eretico, in un ibridismo minaccioso.
In questo ebraismo violentato e traumatizzato, l’apparizione del Baal Shem Tov (morto nel 1760) e della sua filiazione spirituale segna una svolta su cui Buber torna ne Il messaggio del chassidismo, il capolavoro apparso in ebraico nel 1944, in tedesco nel 1952 e che ora Giuntina offre ai lettori italiani in una edizione ottimamente curata e prefata da Francesco Ferrari. Il chassidismo risponde a quella tragedia perché è mistica «che si fa ethos», rinnovamento spirituale consapevole del «mondo della confusione», «bontà » comunitaria che unifica osservanza e qabbalà . Una disciplina talmente profonda che alla fine si spiega nel gesto inutile di Abraham Chaim di Zlocow, che ogni sera rilava i piatti della sua taverna «senza volgere il proprio sguardo altrove», e compie così la santità .
Il rinnovamento chassidico si fonda sulla dottrina qabbalistica della creazione dei mondi: quando «la corrente di fuoco della grazia creatrice si riversò nella sua pienezza» in vasi che ressero a una corrente di grazia che «si spezzò in una infinità  di scintille, mentre le scorze le ricoprivano». Entrava «nel mondo la mancanza», ma anche la responsabilità  â€” di Israele, dell’uomo — di redimere le «scintille», frammenti di luce divina imprigionati dalle cose e dalle fantasie di pienezza «che noi possiamo chiamare il Male», ma che «desiderano essere liberate» dalle scorze. Le «scintille» vengono redente da chi ha capito che il mondo nasce da una contrazione del divino, dal limitarsi di Dio che lascia spazio al limitato, e così crea le condizioni dell’incontro fra l’io e il tu. Un dialogo la cui portata è resa dal racconto di colui che apre la porta solo quando chi bussa non dice «sono io», ma «sono tu» — cioè Dio stesso, quell’«io sono» che si consegna al niente. Questa direzione cosmica dell’autolimitazione, che procede dall’eternità , spinge a cercare «mondi superiori» scendendo con lo sguardo dentro la realtà  fino a vedere sotto il mondo ultimato quello della formazione, quello della creazione, quello dell’essenza, quello della separazione, «così fino all’Illimitato, Benedetto Egli sia».
La gratitudine per la santità  comunitaria e semplice del chassidismo non è ingenua come in nessun maestro di quella filiera che in Italia arriva a Haim Baharier. Buber misura questi santi ciabattini che uniscono terra e Presenza mentre cuciono in santità  una suola alla scarpa con Platone, il sufismo, il monachesimo zen. Egli coglie nel cristianesimo una sfida ben più seria di quella evitata dalle teologie dello sbaciucchio interreligioso. Capisce che il cristianesimo non «ha» una storia: «è» una storia; con «una cesura, un centro assoluto in cui irrompe la redenzione, cosicché il terreno si spacca e proprio in quel punto ottiene la sua fermezza, di lì in avanti irremovibile». L’ebraismo, invece, deve «lottare per la fine»: e la pietà  chassidica — la cui lotta pungola la fede delle Chiese — «vive proprio nell’interruzione, nell’essere esposta» nella profonda consapevolezza dell’impotenza d’ogni conoscenza, dell’incongruenza d’ogni verità  posseduta, nella sacra insicurezza».
Questa interruzione è ethos perché se diventa «fondamento l’amore per colui che non sa», forma di tenerezza estrema e di responsabilità  per la tenerezza che s’è lasciata catturare da tutto, che ama l’uomo malvagio perché «l’anima di quell’uomo è una parte di Dio. E tu dovresti avere pietà  di Dio se una delle sue sante scintille è rimasta imprigionata nelle scorze».
Davanti alla tragedia del Seicento — ma forse anche a quella mai neppur citata del Novecento — Buber vede crescere la vita di Israele, e dunque del mondo, in uno spazio dove la «bontà » è la bontà  di non dire tutto di sé. Infatti al discepolo che gli dice il suo amore, Moshè Là¶b non fa sconti: «Come puoi dire che mi ami? Conosci cosa mi affligge? E allora l’altro tacque, e due sedettero l’uno di fronte all’altro in silenzio, e non c’era niente da aggiungere». In quel silenzio fatto di niente, pianto e convivialità  si incontrano, come quando rabbi Bunam chiede all’allievo in lacrime: «Perché piangi?»; «Sono una creatura nel mondo, creato con occhi e membra e non so per quale proposito sono stato creato e a cosa serva il mondo». «Piccolo pazzo — disse rabbi Bunam —, stasera cenerai con me».
Perché il «mondo della confusione» è il mondo dei morti viventi, dove le parole si autoascoltano e la mistica si veste di piccineria furibonda, dove non c’è pietà  per Dio e i pazzi non piangono su di sé, scarseggiano i ciabattini dell’Eterno e nessuno apparecchia la tavola sulla quale il profumo del vino redima le scintille che la straripante umiltà  della luce ha scritto nelle scorze della Storia.


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