La marcia del dittatore

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«La marcia su Roma è stato uno degli eventi più tragici del Novecento, ma a distanza di novant’anni si tende a caricaturizzarla in “opera buffa”. Ma come è possibile che da una goffa kermesse sia scaturita la tragedia del fascismo italiano?». Emilio Gentile è appena rientrato dall’Università  di Harvard, dove ha tenuto una lezione sulla marcia che approdò nei dintorni della capitale il 28 ottobre del 1922. Degli storici italiani è il più tradotto all’estero, e tra gli studiosi del regime fascista vanta un indiscusso prestigio. Il suo ultimo lavoro è una ricomposizione insolita di materiali raccolti nel corso di quarant’anni di ricerche, una sorta di narrazione storica dal ritmo incalzante che sin dal titolo – E fu subito regime (Laterza, pagg. 320, euro 18) – enuncia una tesi storiografica in contrasto con quella di molti storici, incluso il suo maestro Renzo De Felice. E ridimensiona il ruolo di Mussolini, ridotto da protagonista a comprimario.
Molti storici fanno nascere il regime con le leggi liberticide del 1925. Lei non è d’accordo.
«No. Fin dal principio Mussolini ebbe una chiara intenzione totalitaria. E il regime s’impose immediatamente dopo la marcia. Basta leggere le testimonianze dei contemporanei – Amendola o Salvatorelli – che da subito cominciarono a usare la parola regime in un’accezione nuova, intendendo la sottomissione dello Stato a
un partito armato».
Secondo De Felice, invece, il duce non aveva allora una chiara volontà  autoritaria.
«De Felice scrisse anche che il fascismo al principio, pur se contrario alla libertà  che aveva contrassegnato lo Stato postunitario, non aveva una nitida alternativa a questo Stato. Anche Alberto Aquarone ne rimarcò “l’incertezza” e Roberto Vivarelli riferendosi al primo anno di governo arriva a definirlo una “nebulosa”. Tesi che mi lasciano molto perplesso. Certo Mussolini non aveva allora un dettagliato programma di trasformazione dello Stato, ma era
consapevole della natura irrevocabile del suo regime. Anche nel celebre discorso nell’aula “sorda e grigia” annunciò: questa rivoluzione ha i suoi diritti e sarà  implacabile. Qualcuno l’ha voluta liquidare come pura retorica, in realtà  rifletteva azioni concrete – l’istituzione della Milizia della Sicurezza Nazionale, la violenza squadrista perpetrata con arroganza – che segnavano la rottura irreversibile con le istituzioni liberali».
Però molti contemporanei non compresero la drammaticità  della marcia, liquidata in qualche caso con accenti grotteschi. E la tendenza alla caricatura è stata poi ereditata da alcuni storici.
«Sì, soprattutto dalla storiografia anglosassone ma anche da noi. Salvemini fu tra i primi a definirla “un’opera buffa”. E più di recente Donald Sassoon l’ha ritratta come patetica “adunata di utili idioti”. Il problema è come mai da un evento così ridicolizzato abbiano avuto origine vent’anni di minaccia mortale alla democrazia in Europa. Ma la “storiografia sarcastica” – diciamo così – non è la sola che tende a spegnere la portata di quegli eventi. In un
recente lavoro pubblicato dal Mulino, uno studioso sottile come Sabino Cassese finisce per chiedersi se davvero sia esistito uno Stato fascista, o non si tratti d’una versione ancora più autoritaria del vecchio Stato liberale. Ragionamenti sofisticati, ma mi domando perché vengano applicati solo al fascismo».
Colpisce che a distanza di novant’anni gli studiosi facciano fatica a mettersi d’accordo.
«Ancora si esita a riconoscere il carattere totalitario del regime, considerato meno “fascista” del nazismo. Siamo al paradosso: non si vuole ammettere una realtà  storica che è documentata dalla stessa consapevolezza dei contemporanei. Nel 1923 Salvatorelli e Amendola, Sturzo e Matteotti parlavano già  di “totalitarismo”, identificato nella prevaricazione del fascismo armato sullo Stato. Vaneggiavano? Dobbiamo paragonarli ai bambini della famiglia Darling che credevano nell’isola che non c’è? Peccato che “l’invenzione” abbia portato persecuzione e in taluni casi perfino morte».
Ma lei come spiega questa infinita discussione storiografica?
«C’è difficoltà  a prendere sul serio il fascismo italiano, le cui responsabilità  vengono alleggerite nel confronto con le dittature segnate dal terrore di massa. Ma il carattere totalitario di un regime non si misura dal numero delle vittime, ma vedendo se l’assetto di quel regime renda possibile o meno fare vittime».
Nell’introduzione del suo ultimo libro, il terzo volume della
Storia delle origini del fascismo, Roberto Vivarelli se la prende con quegli studiosi che «discettano di un fenomeno fascista», schiacciando l’esperienza italiana su quella del nazismo tedesco. Secondo Galli della Loggia, che ne ha scritto sul Corriere, il bersaglio è proprio lei, «rappresentante italiano di una imperversante storiografia anglosassone».
«Il libro di Vivarelli non l’ho ancora letto, escludo però che si rivolga a me in quel modo: non credo d’essere sospettabile di “discettare di un fenomeno fascista” senza confrontarmi con le vicende effettive del movimento di Mussolini. Quanto a Galli della Loggia, che devo dire? Evidentemente non ha mai letto un rigo di quel che ho scritto dal 1975 a oggi ».
Nella sua ricostruzione delle origini del fascismo Vivarelli attribuisce una grande responsabilità  al violento sovversivismo socialista: i primi a cominciare, in sostanza, furono i rossi.
«Ma non c’è alcun rapporto diretto tra la violenza del massimalismo socialista e la violenza fascista. Quando in Italia si afferma lo squadrismo, il pericolo bolscevico non esiste più. La paura del comunismo può essere stata una delle condizioni che hanno dato origine al fascismo, ma finché dura il cosiddetto “biennio rosso” il fascismo è un fenomeno marginale. Esso cominciò ad affermarsi quando il socialismo entra in crisi. E poi non c’è proporzione tra violenza rossa e violenza nera: i socialisti non hanno mai assaltato le case della borghesia né i circoli degli altri partiti; i fascisti applicano alla politica le pratiche da guerra civile. Questi i fatti. Naturalmente l’interpretazione può variare, ma non si può dire – come ha fatto Nolte – che Auschwitz è conseguenza del Gulag. È polemica, e basta».
Tradizionalmente la marcia su Roma viene considerata il capolavoro politico di un uomo solo, Benito Mussolini. Lei ne ridimensiona il ruolo.
«Sì, fu assai meno determinante di quanto solitamente si pensi, sia durante la marcia che nei primi tre anni di governo. Un ruolo decisivo fu esercitato dal quadrumviro Michele Bianchi, che del moto insurrezionale fu il primo e più deciso fautore. Nel mio racconto Mussolini è un leader che tende ad assecondare più che ad anticipare o decidere. E dovrà  lottare un bel po’ prima di essere riconosciuto capo indiscusso».
In questo suo lavoro lei insiste molto sull’importanza dell’“attimo fuggente”. La marcia appare come una sequela di “attimi” in cui poteva cambiare il corso della storia.
«Bisogna tornare a raccontare la storia non giudicandola a posteriori, ma facendo parlare i fatti man mano che si svolgono. A decidere non sono mai le grandi strutture, astratte entità  o anonime forze collettive, ma gli esseri umani, messi di volta in volta davanti a una scelta. Trovo sbagliato interpretare il fascismo come il risultato della debolezza dello Stato liberale. Che significa? Non è lo Stato liberale che cede, ma gli uomini incapaci di prendere decisioni adeguate. Ministri come Amendola, Taddei, Alessio avrebbero voluto stroncare la violenza fascista con le forze armate, però prevalse un’altra linea. Non è lo Stato liberale che sbaglia, ma alcuni dei suoi uomini che non seppero capire. La storiografia liberale ha sempre visto in azione le grandi idee, io mi concentro sulle individualità . Una sorta di storiografia esistenzialista, se possiamo dir così, che rende più viva e drammatica la storia ».


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