La linea di Schifani: la legge elettorale deve andare in Aula

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PALERMO — Pesanti nubi nere premono sul cielo fradicio di Palermo quando, a metà  pomeriggio, il presidente del Senato compare in fondo al viale e inizia a percorrere a piedi via Libertà , il «salotto buono» della sua città . Renato Schifani — accompagnato da una scorta discreta e da suo figlio — indossa la giacca a vento nera con lo scudetto tricolore che spesso lo ha accompagnato nelle sue visite al contingente militare in Afghanistan e, ora, lo ripara dal freddo calato improvvisamente anche sulla Sicilia occidentale. Il presidente Schifani è reduce da un piccolo intervento chirurgico, procede adagio ma sorride a chi lo saluta: «Sono in convalescenza, non sono ancora tornato in aula… Ma vado a Roma perché ci sono i funerali del questore del Senato Angelo Cicolani: ci mancherà  moltissimo la sua passione politica».
La seconda carica dello Stato mostra di essere preoccupato in questa anomala domenica elettorale siciliana. Transita lentamente davanti al comitato di Nello Musumeci, lo trova desolatamente vuoto e pochi metri più in là , davanti al faccione di Rosario Crocetta appeso all’ammezzato di via Mazzini, la scena si ripete. «Certo — ragiona il presidente — speriamo che l’affluenza non sia poi così bassa perché il clima in generale è pessimo. L’astensionismo è un brutto segnale… anche se, in buona fede, molta gente domani mattina (oggi, ndr) si renderà  conto che stavolta qui in Sicilia si vota solo di domenica».
All’altezza di via Archimede c’è un semaforo. Scatta il rosso per i pedoni e il caposcorta — incredibile in una città  un tempo squassata dalle sirene delle auto blindate — si ferma per lasciare scorrere i veicoli. Passano pure due tizi poco rassicuranti, con un pitbull e un cane lupo al guinzaglio, che sfiorano con lo sguardo Schifani. Lui però neanche ci fa caso perché segue il suo ragionamento fitto di preoccupazioni, che adesso volano da Palermo a Roma. Delle giravolte del Cavaliere sul governo Monti e dei travagli interni del Pdl, la seconda carica dello Stato, ovviamente, non intende parlare. Ma è pur vero che Schifani, non molto tempo fa, ha affidato prima al Foglio, poi al Corriere della Sera le sue idee esortando l’opera di rinnovamento del partito e ribadendo la necessità  di alcune riforme necessarie per «scrivere il manifesto di un nuovo Stato».
Un signore, giacca nera e capelli bianchi, si avvicina lungo il marciapiede per salutare l’illustre concittadino, ma Schifani prima di congedarsi fa capire che, nonostante tutto, il presidente del Senato terrà  la barra al centro sulla legge elettorale perché, è sottinteso, con l’antipolitica montante e questo astensionismo non si può andare a votare con il Porcellum: «Una cosa è certa, tra due settimane la legge elettorale deve andare in aula. Il Senato non può restare con il cerino in mano». Schifani sa bene che il calendario dell’aula è una prerogativa dei capigruppo ma non può tacere quello che tutti sanno e che molti si aspettano: «Non è da escludere un messaggio (alle Camere, ndr) del capo dello Stato perché la Corte costituzionale, seppure in via incidentale, ci ha detto che l’attuale premio di maggioranza così come è concepito non va bene». Non va bene perché chi vince, senza considerare una soglia minima di voti effettivamente presi, porta comunque a casa il 55% dei seggi. E questo meccanismo, che nel 2006 ha premiato Prodi e nel 2008 Berlusconi, senza contare le liste bloccate compilate dai segretari dei partiti, fa dire alla seconda carica dello Stato: «La situazione è davvero pesante. Per questo dobbiamo subito andare in aula con la nuova legge elettorale».


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