La guerra delle mappe
Non esistono mappe perfette. E forse non serviva l’ultimo caso, il Mapplegate, che ha coinvolto Apple e la sua ultima versione di mappe, piene di errori, fatte per sostituire quelle di Google per capirlo. Per essere perfetta, una mappa dovrebbe rappresentare ogni dettaglio del territorio a cui si riferisce, e per rappresentare ogni dettaglio occorrerebbe una riproduzione in scala 1:1. Una mappa così sarebbe tanto ingombrante quanto inutile. Non a caso i contadini di Sylvie e Bruno – l’ultimo romanzo di Lewis Carroll – si opposero al dispiegamento della mappa di Mein Herr: avrebbe coperto la campagna e oscurato la luce del sole. Tanto vale usare come mappa il territorio stesso, conclusero: «Funziona altrettanto bene».
Non la pensavano diversamente i cittadini dell’impero di cui si narra in un breve scritto immaginato da Borges, Sull’esattezza della scienza.
I loro cartografi avevano raggiunto una tale perizia che la mappa di una provincia occupava un’intera città e quella dell’impero un’intera provincia. Ma quando furono in grado di produrre una mappa così dettagliata da coincidere addirittura con tutto l’impero, punto per punto, nessuno seppe che cosa farsene.
Tanto vale usare il territorio… Eppure, a ben vedere, non è proprio così. È vero che una «mappa perfetta» sarebbe inutile, ma non perché il territorio funzionerebbe altrettanto bene. È la mappa che funzionerebbe altrettanto male. L’utilità di una mappa risiede nella sua maneggevolezza, nella sua capacità di selezionare certe caratteristiche del territorio piuttosto che altre e di rappresentarle in modo perspicuo, e la perspicuità di una mappa è a sua volta funzione dell’uso che si intende farne. C’è una bella differenza tra quello che cerco in una pianta della città se devo raggiungere via Mazzini da corso Dante e quello che cerco invece in una cartina per decidere la strada che mi porterà al mare. E non è soltanto questione di scala, altrimenti le mappe digitali offerte da certi navigatori GPS, o da GoogleMaps, sarebbero davvero la soluzione perfetta, in grado di zoomare in e out a piacimento. Se voglio evitare passi montani, mi servirà una mappa altimetrica. Se voglio farmi una pedalata, mi servirà una mappa che indichi bene le piste ciclabili. E se invece sto prendendo il tram o la metropolitana, mi basta sapere quali sono le fermate, non dove
sono, e mi accontenterò di una semplice mappa topologica (nello stile di Harry Beck, il disegnatore della celebre mappa dell’Underground di Londra). Le mappe non fotografano il territorio; lo raccontano. E come insegna il diario di Tristram Shandy – che impiegò un anno per narrare gli eventi di un solo giorno, e senza riuscirci davvero – non si può e non si deve raccontare tutto. Si raccontano soltanto le cose che interessano.
D’altronde viviamo in un mondo a tre dimensioni e le mappe ne hanno solo due, quindi dobbiamo per forza di cose affidarci a rappresentazioni parziali, approssimative e convenzionali. Né è possibile riprodurre esattamente la superficie del nostro globo su un piano senza affidarsi a proiezioni di qualche tipo, e anche a questo riguardo la scelta dipende dall’uso che si intende fare della mappa. Certe proiezioni conservano in scala tutte le distanze relative, ma a costo di distorcere i rapporti tra le superfici rappresentate. Altre proiezioni conservano invece i rapporti fra le superfici distorcendo le distanze. Altre ancora sacrificano distanze e proporzioni, e quindi le forme delle aree rappresentate, per conservare gli angoli direzionali, come nella comune proiezione di Mercatore: le regioni in prossimità dei poli si allargano a dismisura, ma le rotte ad angolo costante corrispondono a segmenti rettilinei e ciò rende questa soluzione particolarmente adatta per le carte nautiche.
A volte poi non sono nemmeno i nostri bisogni o interessi pratici a imporre la scelta, ma veri e propri interessi politici, o presunzioni culturali in senso lato. Se nell’ultimo secolo la proiezione di Mercatore si è diffusa così tanto non è certo perché siamo tutti marinai. È che all’Europa e al Nordamerica, e anche alla vecchia Unione Sovietica, faceva comodo rappresentare il mondo deformandolo a loro vantaggio. Ci è voluta una Commissione speciale dell’Onu per promuovere una mappa che restituisse al Terzo Mondo la dignità cartografica che gli spetta: anziché aumentare la distanza tra i paralleli al crescere della latitudine, la mappa disegnata da Arno Peters la riduce, allungando i paesi della fascia equatoriale in modo da ristabilire le proporzioni.
E poi c’è il problema di come tagliare la mappa. Noi siamo abituati al nostro bel planisfero eurocentrico, con l’Asia a est e le Americhe a ovest. Ma basta andare in Giappone e le mappe tendono ad avere l’“Oriente” nel mezzo, con l’Europa a sinistra e le Americhe a destra, mentre nel planisfero che ho nel mio studio a New York sono i continenti americani a occupare il centro, e pazienza se l’Eurasia risulta spezzata in due parti. Non c’è da sorprendersi se anche gli altri abbiano rivendicato il diritto di presentare il mondo dal loro punto di vista, a partire da certe mappe australiane o neozelandesi, con l’Oceania troneggiante nel mezzo e il resto del pianeta, capovolto, ai suoi piedi.
Del resto, chi l’ha detto che il nord debba sempre stare in alto? È una convenzione consolidata (pare risalga a Tolomeo), ma l’etimologia di “orientare” dovrebbe farci riflettere. Nelle mappe azteche, come nelle mappe orbis terraedel nostro Medioevo (con Gerusalemme al centro), era l’est a stare in cima, mentre per gli antichi egiziani la cima spettava al supremo ovest, dove il Sole entra nella Terra di Sokar. Anche la Bibbia ci restituisce una mappa tutt’altro che standard. Nel libro della Genesi,
per esempio, si dice che Abramo inseguì i rapitori di Lot fino a Coba, «che è alla sinistra di Damasco». Siccome nelle nostre mappe Coba sarebbe a nord, ne segue che anche le genti di Mosè si orientavano guardando a est. C’è da chiedersi come mai Tolomeo non sia stato inquisito come Galileo, e come mai le traduzioni moderne abbiano deciso di risolvere la questione semplicemente cambiando “sinistra” in “settentrione”.
Tutto questo per dire che, come non esistono mappe perfette, non esistono mappe assolute, e tantomeno mappe neutrali. Nel piccolo come nel grande, la cartografia è una scienza e come tutte le scienze ci restituisce dei modelli.
Come per tutte le scienze, la sua storia è la storia dei nostri bisogni di rappresentare il mondo nella maniera e dal punto di vista che più ci aggradano, evidenziandone certi aspetti a discapito di altri. Niente di più scontato, in un certo senso. Nelle pieghe di ogni mappa si nasconde l’occhio (e la bussola) di chi la traccia o di chi la commissiona. Ma è sempre bene tenerlo presente. Se non ha senso usare il territorio come mappa, con buona pace dei contadini di Sylvie e Bruno, nemmeno bisogna confondere la mappa con il territorio, ovvero i modelli con la realtà , come giustamente proclamava il conte Korzybski (e Magritte prima di lui: Ceci n’est pas une pipe).
Resta il fatto che senza mappe siamo persi, in senso letterale come metaforico, e una volta fatta la nostra scelta tendiamo a fidarcene ciecamente. Se poi la mappa è di tipo elettronico digitale, come quelle che oggi compaiono sui nostri telefonini e sui nostri computer (o come GoogleMaps), allora ci sembra davvero generata automaticamente ed è difficile resistere alla tentazione di pensare che il mondo sia proprio e solo come ci viene proposto. Non vediamo le linee d’inchiostro del cartografo e ci dimentichiamo che, per esempio, il sistema GPS è comunque gestito da un’agenzia che tanto neutrale non può essere.
Oggi però ci sono delle novità , e secondo me vale la pena prenderle molto sul serio. Sto pensando a progetti come OpenStreetMap, la variante cartografica di Wikipedia. È vero che anche qui si usa per lo più la proiezione di Mercatore, e anche qui il nord è in alto. Ma almeno è scomparsa la distinzione tra Oriente e Occidente (la mappa si riproduce indefinitamente a destra e a sinistra). Soprattutto, i dettagli ce li mettiamo noi, e siamo noi a decidere che cosa includere e che cosa omettere. Proprio come in Wikipedia, il foglio elettronico della mappa dispone di un tasto che consente a qualsiasi utente di accedere ai dati e di modificarli, ridisegnando e aggiornando in tempo reale le informazioni visibili nella mappa. E come in Wikipedia, ogni modifica è registrata in un archivio storico aperto a tutti.
Naturalmente resta il rischio che siano in pochi a farla da padrone, e che biechi interessi commerciali si sostituiscano agli interessi culturali e politici che si annidano nelle mappe tradizionali. Non mi sorprenderei se la pizzeria di via Indipendenza dedicasse anima e corpo a modificare continuamente OpenStreetMap per far sì che si passi tutti da lì. Ma tant’è, mi sembra un rischio che si può correre. Con tutti i suoi limiti, non è forse vero che in pochi anni Wikipedia è diventata più ricca, maneggevole, e democratica dell’Enciclopedia Britannica? La perfezione del sapere è un mito ingombrante, ma la perfettibilità – specie se collettiva – è davvero una grande conquista.
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