La bestia nera di Barack Obama

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È dagli anni 20, da quando il presidente era Woodrow Wilson, leader del movimento progressista, che in America si tenta di dare al paese un sistema sanitario degno di questo nome. E anche se l’«Affordable Care Act», questo il nome della nuova legge, è tutto tranne che perfetto poco conta. Come giustamente rivendica Barack Obama si sono quantomeno tarpate le ali allo strapotere delle compagnie di assicurazioni. Basta con la pratica perversa di negare le polizze a chi più ne avrebbe bisogno, ovvero chi si ammala seriamente, basta con la pratica di alzare i costi della salute anno dopo anno senza rendere conto a nessuno. Finalmente si parla di medicina preventiva, anticoncezionali, mammografie e qualche altro esame sono diventati gratuiti. Ma soprattutto per la prima volta nella storia del paese 30 milioni di americani potranno finalmente avere, magari grazie ai sussidi del governo federale, quella copertura sanitaria che non si sono mai potuti permettere, costretti a vivere nell’incubo di ammalarsi e finire per questo sul lastrico. È il più grande successo di questi quattro anni di presidenza Obama, e non a caso i repubblicani strepitano. Pronti a rilanciare lo slogan dei Tea party, che tanto hanno gridato fin dall’estate del 2009, «Abroghiamo Obama, abroghiamo la riforma sanitaria». Del resto l’ipotesi di una vittoria del loro candidato, Mitt Romney, purtroppo non è così raminga. Non tanto per la forza dell’ex governatore del Massachusetts ma per la fragilità  della ripresa economica americana, l’ostacolo più grande per la rielezione del presidente democratico.
Una ripresa senza lavoro
Anche se negli Stati uniti non è arrivato, come in più di un paese europeo, il terribile double dip, ovvero una seconda recessione, le cose vanno male. Certo qualche segno positivo c’è, persino nel settore dell’edilizia, là  dove tutto era cominciato nell’autunno del 2008. Ma quella americana continua comunque a essere una jobless recovery, una ripresa che non porta nuovi posti di lavoro. La disoccupazione rimane alta, sopra l’8 per cento, in un paese da sempre abituato a ben altre percentuali. Ed è questo che si sente sulla pelle per milioni di americani.
La Grande recessione ha scavato a fondo in questi anni nella società  e nella politica del paese, ha seminato cattivi sentimenti e coltivato il rancore che ha dato vita ad esempio al movimento dei Tea Party. E anche se adesso la loro popolarità  è ormai in calo, non altrettanto si può dire della loro presa sul partito repubblicano. (…) Ma i Tea Party per fortuna non sono gli unici figli della crisi. Alla fine del 2011 infatti è apparso sulla scena un altro diverso, per non dire contrapposto movimento. Occupy Wall Street ha conquistato il cuore di gran parte dei giovani, e dei liberal americani. E se gli accampamenti, dal newyorkese Zuccotty Park alle tendopoli davanti al municipio di Oakland o in altre centinaia di città  sparse per l’America, sono durati in realtà  solo poche settimane, il nuovo movimento è stato capace di influenzare profondamente il dibattito politico del paese. Mettendo al centro, per la prima volta da quasi un secolo, il tema della diseguaglianza sociale. Cresciuta in questi anni qui come altrove, scavando un baratro tra il mondo di Wall Street, arricchitosi persino durante la Grande recessione, e gli altri, quel «99 per cento» a cui i giovani di Occupy dicono di voler dare voce. È un tema talmente inedito per l’America che spesso non si trovano nemmeno le parole per parlarne. Così negli slogan e nei commenti politici riecheggiano antichi conflitti, un ottocentesco scontro tra «ricchi e poveri», o tutt’al più quelli del secolo successivo, la lotta di classe che qui i repubblicani chiamano, storcendo la bocca perché per loro è un insulto, «guerra di classe».
L’uomo della provvidenza
Barack Obama accetta più che volentieri la sfida, risfodera toni populisti, propone tasse più alte per i supericchi, chiede al Congresso, inutilmente purtroppo, di aiutare chi non trova lavoro, o non ce la fa a pagare mutui, affitti e bollette. Del resto questo era stato uno dei temi della sua trionfante campagna di quattro anni fa. Non certo l’unico, nè il principale, visto che nel 2008 Obama in realtà  prometteva di cancellare la polarizzazione politica degli anni di George W. Bush, convinto di poter trasformare il paese con riforme votate in modo bipartisan. Un sogno che però, come tanti altri, si è infranto per il cocciuto rifiuto prima e la furia poi dei repubblicani.
I capelli ingrigiti, le pieghe amare scavate attorno alla bocca un tempo sempre pronta al sorriso, Barack Obama si è pian piano trasformato in un politico molto diverso dal giovane senatore dell’Illinois che nel 2008 era stato eletto a furor di popolo, primo presidente afro americano degli Stati uniti. Persino la sua attuale svolta populista, è in realtà  più una necessità  che una scelta. Anche se alla fine potrebbe rivelarsi la carta vincente, visto l’avversario che gli è toccato in sorte nella sfida del 2012. Perchè Mitt Romney, il vincitore delle lunghe e combattutissime primarie repubblicane, ha scelto di presentarsi come il candidato di Wall Street e delle grandi corporations, quel mondo che una volta, in Italia, chiamavamo «i poteri forti».
Sono loro che oggi finanziano, con milioni e milioni di dollari, la sua campagna elettorale. Gli spot velenosi, aggressivi e sprezzanti, che invadono gli schermi televisivi, soprattutto negli stati chiave per la vittoria finale, sono pagati direttamente da «American Cross Road», la creatura di Karl Rove, l’uomo nero della rielezione di George W. Bush nel 2004, o da «Americans for prosperity», l’associazione dietro cui si nascondono i fratelli Koch, i petrolieri miliardari che tanto hanno foraggiato, fin dalla fine del 2009, i Tea party. Due sigle prontamente trasformatesi in Super pac, i comitati elettorali che ora, grazie a «Citizen united», la sentenza della Corte suprema del 2010, possono raccogliere, e spendere milioni nelle camapagne elettorali senza più limiti. Trasformandosi nei veri protagonisti della corsa verso la Casa Bianca. Con gande soddisfazione di Mitt Romney, che del resto è cresciuto proprio in questo mondo. E ora lo rivendica, preferendo dimenticare, e cercare di far dimenticare, i suoi anni di governatore del Massachussetts.
Milionario lui stesso, con tanto di conti bancari aperti, con un complicato giro di società  di comodo, nel paradiso fiscale delle Isole Caimane, mentre quello svizzero, intestato a sua moglie, è stato appena, velocemente chiuso. Storie di cui si parla da tempo, ma che quest’estate «Vanity fair» ha sbattuto in copertina, e raccontato in dettaglio in un articolo di Nicholas Shaxson. È grazie alla sua abilità  di uomo d’affari del resto che ora Romney si presenta come l’uomo provvidenza, l’unico capace di fare uscire il paese dalle secche della crisi. Fondatore alla fine degli anni ’70 della «Bain & company», diventata a metà  del decennio successivo, con il nuovo nome di «Bain capital», una delle più potenti società  di private equity del paese. Quelle società  che proprio allora nascevano come funghi, specializzate nell’acquisto di medie e piccole aziende in difficoltà . Ristrutturate poi a colpi di licenziamenti, spezzettate, messe in vendita o più semplicemente liquidate con disperazione dei loro dipendenti e grande gioia dei portafogli degli azionisti della «Bain capital» e delle sue sorelle.
Una ricetta che Mitt Romney dichiara di voler applicare all’intera economia del paese, abbinata ovviamente alla battaglia contro il «big government», e a politiche di rigore e austerità . Le stesse che hanno già  provocato tanti danni in Europa, ma rilanciate ora dal candidato repubblicano come la via maestra per la crescita e per la riduzione dell’enorme debito pubblico degli Stati uniti. (…)
L’elezione di Barack Obama ha davvero cambiato l’America. Il solo fatto di essere riuscito a diventare presidente, ad esempio, ha aperto gli occhi e i cuori di milioni di afro americani, liberati finalmente dalle loro catene. E se i bianchi stentano a ritrovarsi, (…) poco conta. Nonostante la rivolta rabbiosa dei Tea Party, il paese vive, come dice la vicenda dei matrimoni gay. Una volta spauracchio agitato dai conservatori, e da George W. Bush, oggi diventati realtà  in otto stati americani e sposati persino dalla Casa bianca. Certo Barack Obama, che ha detto il suo sì solo in questa primavera del 2012, a ben vedere è stato l’ultimo a schierarsi con la comunità  gay americana. Ma non c’è dubbio che, senza la sua vittoria di quattro anni fa, nulla sarebbe stato possible. In questa come in tante altre battaglie sui diritti, le social issues come vengono chiamate in America. Dalla legge sulla parità  salariale delle donne, all’abolizione di «Don’t ask, don’t tell», che discriminava soldati e soldatesse omosessuali.
Ma purtroppo non è su questo che si vota a novembre. Così come conterà  poco o nulla, nelle urne, la politica estera, di successo, di Barack Obama. Le sue aperture al mondo musulmano, iniziate con il grande discorso del Cairo del giugno del 2009, proseguite con l’appoggio alla primavera araba e oggi confermate dall’invito alla Casa bianca al nuovo presidente egiziano Mohamed Morsi. Persino l’uccisione di Osama Bin Laden, il grande nemico, che pure un anno fa aveva fatto volare nei sondaggi la popolarità  di Obama, pare già  dimenticata. Perchè il cuore, i pensieri di tutti sono solo per la crisi economica, e la disoccupazione. (…)
Testa a testa
Per tutta l’estate i sondaggi raccontano il testa a testa tra i due contendenti, con Barack Obama davanti a Mitt Romney giusto di 3 punti, ovvero il margine d’errore di ogni statistica. La partita della Casa bianca però non si gioca sul voto popolare, nazionale, ma nei singoli stati. E qui per fortuna le cose paiono andare un po’ meglio. In Pennsylvania ad esempio, dove la ripresa c’è, la disoccupazione è scesa al 7,4 per cento e il presidente è in vantaggio di ben 7 punti, e ancor meglio va in Ohio, altro stato chiave per la contesa di Novembre, o nel cuore dell’industria manifatturiera americana, in Michigan. Nella capitale dell’auto, salvata grazie all’intervento del governo federale, i senza lavoro sono ancor più dell’8 per cento, e i sondaggi di luglio prevendono una sicura vittoria per Barack Obama. Ma là  dove invece la crisi picchia ancora duro, come in Florida, ago della bilancia delle ultime tornate elettorali presidenziali, tutto è molto più incerto. Il tasso di disoccupazione supera quello nazionale, è all’8,6 per cento, e il vantaggio di Obama si riduce a un misero punto in percentuale.
Anche qui però le cose potrebbero cambiare. Soprattutto adesso che i media americani hanno cominciato a spulciare i conti di Mitt Romney. Appena l’articolo di «Vanity Fair» è apparso in rete, il «New York Times» ha rilanciato la storia di come il candidato repubblicano evada, grazie ai conti esteri, le tasse. E una settimana dopo il «Boston Globe» ha rincarato la dose. L’articolo questa volta è stato dedicato a un’altra magagna di Romney. Documenti alla mano, si racconta come nei suoi rapporti annuali rapporti alla Sec (la «Securities and exchange commission», cane da guardia della borsa americana) la Bain capital indicasse proprio lui, fino al 2002, come presidente e amministratore delegato della società . Niente di male, se non fosse che il candidato repubblicano ha sempre detto il contrario. Ovvero di essere uscito dalla «Bain capital» fin dal 1999. E in America si sa, il presidente, o chi aspira a diventarlo, non deve mai dire bugie.

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SCAFFALE

Un diario dagli Stati Uniti

Il volume di Giovanna Pajetta «America in bianco e nero» (manifestolibri, pp. 160, euro 16) è un diario dell’americana obamiana, dalla vittoria alla livorosa rivolta del Tea Party a Occupy Walla Street. Il libro, che sarà  da oggi nelle librerie, è composto da otto capitoli – Prologo (estate 2008), Sotto le macerie di Wall Street (dicembre 2008), Tutti i colori del presidente (gennaio 2009), Il manifesto a New York (primavera 2009), Un medico in città  (autunno 2009), Anniversario in bianco e nero (primavera 2010), Fischia il vento, (autunno 2010), Insurrezione a Wall Street (2011) – che scandiscono, attraverso incontri, reportage, analisi l’iniziale entusiasmo, le prime difficoltà  incontrate nel poter far approvare riforme bipartisan, fino agli effetti che la crisi economica nella società  statunitense. Il volume è aperto da una introduzione, di cui pubblichiamo ampi stralci, dove l’autrice fa il punto sul testa a testa tra Obama e il repubblicano Mitt Romney.


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