Il vicolo cieco di questi partiti

by Sergio Segio | 9 Ottobre 2012 7:47

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Dunque prima degli interessi dei partiti viene in gioco il valore della democrazia.
In questa seconda prospettiva sarebbe d’obbligo anzitutto chiedersi qual è la democrazia che vogliamo. Abbiamo passato l’ultimo ventennio a cercare di semplificare il sistema politico. Si è tentato di ridurre il numero dei partiti che invece si sono solo frammentati, mischiati e poi moltiplicati, tutti ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Si sono modificati i regolamenti parlamentari per garantire maggiore efficienza e capacità  alle assemblee legislative le quali si sono invece trasformate in camere di registrazione della volontà  dei leader e delle maggioranze di governo, lasciando sul campo un parlamento in agonia. Si è ossessivamente richiamata la necessaria stabilità  degli esecutivi per poi assistere alla degenerazione di governi sempre più autonomi dai parlamenti, che pure li votavano a larga maggioranza, e sempre meno rappresentativi fruendo ormai quasi esclusivamente di una legittimazione d’investitura o tecnocratica. Si è puntato sul ruolo delle istituzioni di garanzia ma si sono dovuti affidare ad esse compiti governanti al fine di custodire una costituzione ormai sotto stress continuo. A tutto ciò s’è dato il nome di democrazia maggioritaria. Alla base di questa concezione i sistemi elettorali che si sono succeduti senza soluzione di continuità  dagli anni ’90 in poi.
Vogliamo continuare così? Conviene ai partiti proseguire sulla strada che li ha condotti a un passo dal baratro?
Non dico sia facile trovare una via d’uscita. Anzi non c’è da illudersi. Quale che sia il sistema elettorale se prosegue l’afasia dei partiti, se dovesse prevalere la furia montante e dissolutoria di ogni rappresentanza politica organizzata, temo che saremo comunque condannati ad un altro ventennio: dopo il berlusconismo, il montismo (entrambi intesi come ideologia e sistema di governo). Nulla potrà  fermare il cupio dissolvi della politica se non la politica stessa. A essa spetta dimostrare ora di saper reagire alla crisi che ha colpito la nostra democrazia.
È forse allora il caso di abbandonare ogni cautela e gettare uno sguardo oltre il contingente, al di là  delle stesse prossime elezioni. Perché è qui – le prossime elezioni – il problema occultato dalle manovre tattiche che governano le mosse dei partiti nella discussione sulla riforma del sistema elettorale. Sembra che a nessuno realmente interessi porsi la domanda di qual è il sistema elettorale più idoneo a irrobustire la nostra fragile democrazia reale. Tutti si interrogano invece in che modo sia possibile assicurare (prima delle elezioni!) che il prossimo governo sia espressione del montismo ovvero sia presieduto da Bersani (altre possibilità  non si danno). In quest’ottica è ragionevole ritenere che, in questo momento, basterebbe imporre un sistema che premiasse il partito che, nel calo generale, risulti essere meno perdente (il pd, non c’è dubbio) per assicurare al centrosinistra la vittoria alle elezioni e la conquista del governo. Ma poi, la democrazia? E se la prossima volta un partitino (di centro, di destra o demagogico) riesce a strappare il titolo del miglior perdente al pd, che fare? Si cambia, in un orgia di strumentalismo tattico?
Credo sia giunto il momento di cambiare passo rispetto alla perversione tecnocratica e l’ossessione dell’immediato che ha caratterizzato il ventennio trascorso. Iniziando da una legge elettorale che garantisca la rappresentanza delle forze politiche e dei movimenti che superano una soglia di rappresentatività  reale, che responsabilizzi i partiti nella designazione delle persone da eleggere e il controllo dell’eletto da parte degli elettori, che assegni alle camere, secondo Costituzione, il potere di conferire la fiducia ai governi che la chiedono dopo essere stati nominati dal capo dello Stato mediante mozione motivata e in base a un programma che viene esposto in sede parlamentare, che valorizzi il ruolo delle opposizioni sia all’interno del parlamento sia all’esterno di esso come garanti della pluralità  del sistema. La traduzione tecnica di questi principi è nota e non è qui il caso di specificare (ma per avere un idea si pensi al sistema tedesco). Certo non basterebbe questo per risollevare le sorti della nostra malandata democrazia parlamentare, né ci aiuterebbe a scampare il pericolo di un Monti-bis. Potrebbe però farci intravedere una possibile fuoriuscita dagli anni bui della crisi della democrazia.
Immagino le critiche di chi potrebbe invitare alla cautela: se ci si ferma al solo sistema elettorale e non si ridiscute dell’intero impianto costituzionale per ricollocare della loro dimensione perduta l’intera organizzazione del potere si rischia solo di fare un favore oggi a Casini e a Monti. Senza una recupero di effettiva centralità  del parlamento e della rappresentanza politica, un ridimensionamento dell’esorbitante potere dei governi nella definizione dell’indirizzo politico, un freno ai poteri emergenziali degli organi di garanzia, una rinascita delle dinamiche conflittuali tra maggioranze e minoranze politiche, un complessivo riequilibrio dei rapporti tra gli organi che danno vita alla nostra particolare forma di governo, non basterà  certo una nuova legge elettorale. È vero, ma bisogna smetterla di essere conservatori e da qualche parte dovremo pur cominciare.
Già , «smetterla di essere conservatori», proprio la vecchia accusa tante volte rivolta a chi ha difeso in questi anni le ragioni della costituzione e della democrazia rappresentativa. Ora, alla fine di un ventennio è il tempo di fare i conti e rimettere le cose a loro posto. Riconoscendo che i conservatori sono stati quelli che hanno puntato sulla personalizzazione del potere e hanno fomentato lo svuotamento della politica. Coloro che hanno sterilizzato le istituzioni rappresentative e anestetizzato le capacità  critiche e la partecipazione politica. Questi si sono a volte presentati come rivoluzionari, e forse non avevano torto: la rivoluzione passiva in fondo è un modo per conservare il potere. Ancora oggi molti cavalcano il luogo comune della rottura del «vecchio» per la promozione di un «nuovo», vestendosi alla moda, ma non proponendo nulla; volendo solo conservare lo stato di cose presenti.
E allora tocca ai veri innovatori assumersi il rischio di una rottura di continuità . Una legge elettorale rispettosa della rappresentanza sarebbe un buon inizio. Il dibattito al Senato non lascia granché sperare. Appelliamoci al cambiamento in nome della costituzione.

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